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lunedì 16 febbraio 2015

Il posto di Roberta

Non c’è traffico, potrei tirar dritto per il percorso che faccio sempre quando vado in azienda, invece svolto e imbocco l’autostrada.
È presto, sono in anticipo e imbocco l’autostrada.
Il fatto è che vorrei non farmi sbiadire i pensieri dai soliti colori urbani, a destra la statale rimane troppo adesa alla città e alle falangi della sua isteria, a sinistra invece è un balcone sul mare e vorrei non farmi scremare le colpe e le ragioni,  vorrei non farti assolvere dal mio mare,  vorrei sentirmi intera, oggi, compatta e adesa contro i miei toni autentici.
È presto, mi dico, mentre svolto e imbocco l’autostrada, sono in anticipo, io che nel ritardo inspiro a tiri lunghi ogni molecola d’aria, ogni particella subatomica di vita, cento cose da fare e briciole di tempo per farne ancora una, io che non si spreca nulla, nemmeno un grammo di vita.
Sono in anticipo e imbocco l’autostrada, farò un giro più largo, allungherò un bel po’ e dovrò tornare indietro, parecchio, ma sarò ugualmente in anticipo, ma resterà del tempo, tanto tempo, ancora da inspirare a vuoto,  un lusso, come una sigaretta accesa e gettata via dopo due tiri.
Se fumassi fumerei sempre fino alla fine ogni singola sigaretta, l’aspirerei a fondo fino in fondo e oltre, a sentirne l’amaro, l’acre, a sentire il piacere diventare disgusto. E allora la schiaccerei, stizzita e delusa dal quel sapore acre, dal sapore amaro, dal disgusto che prima era piacere, e mi direi che sono una stupida a non fermarmi prima, a non lasciare un piacere quando ancora è un piacere, nel punto in cui ci si può fermare prima che diventi disgusto.
Se fumassi.

Se fumassi, farei così ogni volta. Arriverei al disgusto ogni volta, pur avendolo potuto prevedere, pur avendolo potuto evitare.
Era da tanto che non facevo l’autostrada e oggi è una frenesia di oleandri che direziona i pensieri verso stagioni nuove, c’è un’aria buona che preme fuori dal finestrino, un’aria nuova, come quando in casa si lavano le tende, è un maggio che si porta avanti con l’estate, peccato dover tornare indietro tanto presto. La prossima uscita è già la mia, poi la circonvallazione come una lunga serpe che mi riporta indietro verso il bar dove tu mi troverai tra poco meno di un’ora, ed è ancora presto, uno spreco di tempo e d’aria nuova, un lusso di minuti, peccato doverli buttar via ancora vuoti.
Parcheggio facilmente, vista l’ora. Il bar, il nostro, il bar di tanti incontri senza fiato nelle feritoie delle giornate sature inspirate a fondo fino in fondo e oltre, il nostro bar ha l’aria sospesa di uno che non ti sta aspettando e ti saluta con una irregolare messa a fuoco, distratto da una domanda implicita di ordine mentale.
Mi siedo al solito tavolino, chiedo il mio caffè d’orzo.
Ancora mezz’ora e sarai qui, sempre puntuale tu, come una questione di principio.
È presto ma occorrerebbe più tempo, penso, per tirare le somme, fare un’analisi dei costi, falsare il bilancio.
Tra mezz’ora sarai qui, e mi dirai nervosamente che hai scelto lei, con franchezza però nervosamente, in difesa, pronto al balzo in avanti. Sarai breve, non per pudore o timore di ferirmi, semplicemente perché per te le cose sono sempre maledettamente asciutte, lineari, prive di inutili dettagli. Sarai subito distratto dagli aspetti pratici della faccenda, mi chiederai aiuto.  Ti aspetterai che io te lo dia. E io sarò al di sopra delle tue aspettative. Mi sfilerò la fede e l’appoggerò sul tavolino, avrò il sangue freddo di un sorriso.  Non dirò nulla. Respirerò il mio tempo, questo residuo amaro del tempo ancora nostro, in silenzio, lo inspirerò a fondo fino in fondo. E non andrò via per prima, sapendo bene che me ne pentirò, sapendo bene che sarebbe meglio prevenire il disgusto dell’ultimo tiro, sapendo che poi sarò stizzita e delusa dal sapore acre delle mie non scelte.
Eccoti, sei puntualissimo, ed esattamente con l’aria che pensavo, nervoso e spavaldo, la  spavalderia come un’imbottitura contro il freddo. Ti ci stringi dentro con quel tuo movimento delle spalle, ci trovi protezione.
Mi guardi mentre ti siedi, e so che dovrei parlare io per prima, gettare via la sigaretta prima che arrivi in fondo, evitare l’amaro, il troppo amaro, almeno.
Mi chiedi dei bambini, non mi ascolti mentre rispondo ciò che sai già: che stanno bene, che sono con tuo padre.
Mi guardi, poi ti guardi le mani, mi dici scusa se ti ho fatto fretta, forse potevamo parlarne stasera a casa ma con i bambini è impossibile, volevo che fossimo soli, una volta tanto.
So cosa stai per dire, ed è come guardare una grossa pietra che sta per colpire una finestra, la mente anticipa il fragore, le traiettorie stellate e aguzze del vetro che si sorprende in schegge.
Mi guardi, poi ti guardi le mani mentre mi dici perdonami Lidia, ma devo chiederti di lasciare il tuo lavoro, lo so che ci tieni tanto ma in fondo, per quello che ti danno, e io ho bisogno di te in ditta, devi riprendere il posto di Roberta, lo sai quello è il posto di maggiore responsabilità in azienda, diocristo, questa ha in mano tutto, capisci?, aveva in mano tutto e mi molla da un giorno all’altro, dice che ha conosciuto uno e domani se ne parte per Berlino, ‘sta stronza…..
Ti guardi le mani come se guardassi le parole che dici, come se fossero qualcosa di concreto e morbido, come un’imbottitura contro il freddo, e ti ci stringi dentro con quel tuo movimento delle spalle, per un istante sembri proprio trovarci protezione.

Patrizia Sardisco