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mercoledì 12 aprile 2017

Edith


Belville è un incrocio, crossing over, scambio. La gente corre nel fango, si sa, la pioggia cade copiosa, fine, a scrosci. Parigi è così. Edith non gioca, guarda. Le chanteuse cantano storie da balera, ladri, bari, coltelli. Belville è un incrocio, crossing over, più giù l'Opera.


Beve per strada un vino di pessima qualità, sputa fuori fiato e note nei bar, nelle taverne. Ridendo per non svanire, ancora un bicchiere insieme al baro, al pappone- sputaci sopra, Edith.

In fondo affiorano gli occhi bendati, sono proprio in fondo al bicchiere, infetti, nel postribolo di quella donna che fu sua nonna. Le puttane piangevano, se la spupazzavano come una pupattola.

- Prega Santa Teresa, Edith.

- Povera piccola, sua madre l'ha abbandonata tra le piattole di quel materasso tugurio, da quell'altra.

Le ossa crescono fragili, non vedono luce, fino a quando gli occhi si aprono.

Scorre ancora grappa di viticcio modesto per portarti fino all'angolo dell'Opera.

- Grazie, signore – Canti. Venti anni sono pochi e sono tanti per non vedere un figlio inghiottito dal vicolo e la strada, bruciato dalle febbri. Sei uno scricciolo, un uccellino canterino dall'ugola potente. Tuo padre un giocoliere che ti ha portato su filo della vita.

- Edith, canta. Scivola tra fiumi di champagne, lui è arrivato, il tuo pigmalione. Edith, canta. Sei famosa, sei una stella. Non sei nei vicoli di Belville, sulla carta stampata il tuo nome è immenso, a New York, innamorata, famosa, felice. Edith canta.

Senti? - Edith, risuona il tuo nome. Ma la scena è vuota.

La scena si svuota. Non basta lo champagne, il veleno che intorbida la mente e scorre nelle vene, non basta a sedare il dolore che grida più della voce. La sommerge, la spegne. 
In una primavera di passi grevi lungo rive d'oceano rilasciando l'ultima intervista, sui ferri da calza l'ultimo calzino, lascia la poltrona del giardino e poi il letto.

 
Clotilde Alizzi