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mercoledì 12 novembre 2014

Cartoline da Lampedusa

“… e tu, dove credi di andare?” Antonio lo guardò perplesso e lo fermò alla porta dell’hangar.
“Please. Fami entrare. Io entrare. Io prego”
Era nero; era sporco; era mezzo nudo con indosso una vecchia tuta; ma no, non era malato.
Antonio si fece perentorio: “Ti ho detto che qui non si entra!” lo strattonò per un braccio. “Ci sono le casse. Hai capito?”
Il negro non reagiva. Era alto, solido e curvo come un ulivo ritorto; non faceva segno di allontanarsi.
Ad Antonio montò la rabbia : ”Sei fuggito dal CAE”, gli urlò a venti centimetri dal collo perché non gli arrivava agli occhi, ”ora chiamo la polizia.”
Il negro piegò le ginocchia a poco a poco e si sedette stremato sulle cosce. Aveva la faccia e il grande corpo screpolati di salsedine, e gli occhi pesti di chi non ha mai dormito. Il fiore bianco pencolò dalle mani verso terra; lo sollevò con cura, sollevò anche la faccia. Gli occhi adesso ardevano come di febbre.
“My brother“ , la voce era un sussurro di vento leggero “io cercare for my brother.” Il suo sguardo tentò di penetrare nella lunga penombra e si disperò della distesa sterminata di feretri.
“Sei un naufrago di quelli di lunedì?” Il corpo del negro sussultò, abbassò il capo come a proteggersi: “Noi … soli. Solo noi. Risalimo da acqua ma difficile natare tra tanti morti!”
“Vieni via, alzati. non puoi restare qui. Ti accompagno al campo.”
“No. No!  Io cercare fratello” il vento della voce era sommesso e penetrante come uno spiffero.
“Ma che dici? Lo devi quante sono?” Antonio gettò una mano indietro a indicare di là.
“Io fiore … su lui … restare. Lui morto, io qui. Fiore, fiore su lui.”
Ad Antonio vennero i lucciconi mentre tentava di sollevarlo : ”Come ti chiami?”
“Ahmed”, lo diceva e quasi non ci credeva lui stesso, “Amhed”. Si toccava il petto con le nocche.
“Va be’, vieni, Ahmed. Cerchiamolo assieme.”
Antonio tentò di mettergli una mano protettiva sulla spalla alzandosi sulle punte dei piedi. Si accorse che Ahmed stava tremando e dovette sorreggerlo, guardandosi intorno se qualcuno poteva aver visto.
Entrarono nell’hangar abbracciati come due feriti in una guerra di soli sconfitti.
“Omar, fratello Ahmed”, balbettava, “Omar Hussaini.”
“Maledetto me! maledetta burocrazia! Chi cazzo ci ha pensato ai nomi?” Voleva urlare, scusarsi; ma parole adatte non ce n’erano.
Allargò le braccia : “Senti, Ahmed, guarda un po’ in giro; io non ti posso aiutare. Ma … vedi … qui non ci sono nomi. Ci sono solo fottutissimi numeri!”
Porco mondo, pensò Antonio, un corpo è un corpo; ma quando ha un nome qualcuno può avere un passato, uno straccio di conforto e rispetto, una memoria  una traccia. Qui ci sono solo cose spoglie, carcasse peggio dei cani: semplicemente tutto più pulito e inscatolato.
Antonio provò una pietà infinita: il gigante Ahmed era ancora più smarrito, faceva paura come una montagna in procinto di franare. Sbandava a destra e a sinistra come una barca ubriaca; carezzava tutte le bare, allargava la bocca e gli occhi come un affogato; forse ormai non distingueva più nulla per le sue pupille annegate nei flutti delle lacrime.
Mentre Antonio si avvicinava per portarlo fuori,  Ahmed cambiò rotta e si portò al centro dell’hangar: più di trecento salme lo circondavano da ogni direzione.
Il fiore bianco, lo tenne tra le due mani giunte; se lo portò prima sulle labbra e poi, deferente, sulla fronte. Infine lo posò sulla più vicina.
“Sono tutti miei fratelli!”

E s’avviò all’uscita.


Fabrizio Sapio