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mercoledì 19 novembre 2014

Il ragno



Hanno tirato le tende e accostato gli scuri, la stanza è in penombra, se il silenzio fosse fatto di luce, avremmo delle grosse lampadine al posto delle bocche invece siamo come dei vecchi pesci in una fontana d’acqua marcia. Spenti.
L’aria è pesante, un odore dolciastro ammorba i nostri respiri. Avverto il disagio come una fune che ci costringe gli uni agli altri e che l’assenza di luce ora accorcia ora dilata, ridicolo per chi come noi ha reciso ogni legame.
“C’è puzza qui dentro” – “è l’odore della malattia” azzarda una voce, è Giovanna le corde vocali masticate dal fumo, sembra un uomo. –No, non è la malattia è il male fuoriesce, libero. Questa è Alba la mia gemella, l’ombra più piccola appartiene a Pablo, c’è anche lui. Il buio ci protegge da noi stessi consegnandoci un coraggio che non ci appartiene. Siamo venuti tutti, non saremmo mancati neppure da morti.
Lei è enorme ma forse lo immagino soltanto, mi appare come un ragno al centro della stanza, ne indovino le forme che schiacciano i cuscini, sfumano persino i dettagli del letto, la spalliera di ferro che domina la camera sembra rimpicciolita; d’intorno alle pareti guaste e scolorite dagli anni noi come mosche noiose appiccicate al pavimento. Nessuno fa un passo in più, questo semicerchio è un patto.
La badante invece la scruta da presso pronta a coglierne ogni fiato e movimento. – “da giorni non parla più, pare che dorma, poi d’improvviso sbarra gli occhi ti guarda che ti pisci addosso”. – Pablo sussulta- “I medici dicono che manca poco, dovevo chiamarvi”. Io non ci credo mica, i ragni per morire si devono schiacciare per bene, devi sentire il rumore sotto le suole, altrimenti scappano e si rifugiano veloci negli angoli e aspettano.
Giovanna tira vicino a se una sedia, ha il fiato corto, si lascia cadere. Ha profonde rughe attorno alle labbra, dove si rintana il buio. Ci somigliamo poco. Attilio non ha detto una parola, stringe qualcosa tra le mani, un telefonino? No un libricino, lui e le sue preghiere. Prega Attilio, prega, tanto crepa lo stesso. Se non è oggi, i medici dicono che sarà stanotte e noi questo spettacolo siamo venuti a godercelo, l’oscurità ci ha accolto e ce la teniamo sulle spalle come scialle nero.
Pablo si è accovacciato sui talloni, piange è un bambino che frigna piano solo per darti ai nervi. Ancora più piccolo ripiegato su se stesso, sembra un cane senza padrone.
- Cani, siete cani e se io vi lasciassi senza catena, mi avreste già azzannato. Cani i miei cani, bau bau Pablo, dai che lo troverai quello che ti darà l’osso-
Nostro padre invece l’osso lo aveva mollato si era lasciato morire come un naufrago che si arrende alla forza del mare. Il sale aveva spaccato il tegumento e cristallizzato il cuore. Era calato a picco senza protestare.
-Meglio un morto in più al cimitero che un uomo senza palle in casa-
E come si faceva a trovare il coraggio? Lei ti succhiava la linfa, eravamo il suo nutrimento. Nessuno era all’altezza delle sue aspettative. 
Così era accaduto che fossimo cresciuti come dei soldatini di stagno da dileggiare, da bruciare perché è facile riversare sugli altri il peso delle proprie sconfitte. La maternità non è un obbligo ma può diventare un castigo.
Adesso il ragno chiudeva i suoi cento occhi e perdeva il suo veleno. Noi quel veleno lo avevamo bevuto e ne volevamo ancora, non sarebbe stato la sua fine, l’antidoto. Chi avremmo odiato se non noi stessi incapaci di sorreggerci e di condividere il dolore, come avremmo giustificato il nostro male di vivere?
Questa consapevolezza ci univa in una veglia che era la pantomima del nostro passato, noi le sue uova marce, la sua bava filamentosa, figli ciechi di un insetto cieco. Morte o tanatosi? Sì perché da carogna qual era, avrebbe potuto rialzarsi in mezzo a quel letto e chiamarci uno per uno: Attilio, Pablo, Giovanna Alba e me quella della quale non si pronuncia neanche il nome, quella che è già morta. Mi avrebbe guardato e sarebbe scoppiata in una grande risata.
Cerco le tasche voglio che le mani ritrovino il mio corpo senza che altri se ne accorgano, in un gesto che mi consoli in segreto, sono cucite. Sospiro sconfitta dalla mia distrazione. Eppure qualcosa come per un processo osmotico sconfina e raggiunge il fascio nervoso invisibile che regge la mia impalcatura. Io faccio io il passo e avverto linee di stupore su quei volti come rette che spezzano una finta fratellanza.
Esco, torno alla luce ed è doloroso come un’epifania. Me ne vado, sono un cane della migliore razza io, la bastarda.

Adele Musso