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giovedì 11 dicembre 2014

“No tengo santidad” ovvero “Storia breve di una santità perduta”.

(Tratto dallo Statuto dell’Arte dei Pittori Senesi dell’Anno 1355)

Cap. XVI
Che neuno debbia dire parole che fussero vergogna del rectore.

Ancho ordiniamo concio’ sia cosa che onesto sia renderci onore al rectore e agli altri offitiali, neuno ordina di sparlare con parole villane e disoneste, le quali parole potessero tornare in vergogna o in vitupero del rectore et de’ suoi offitiali, e spetialmente quando fussero dette in atto d’offitio; e chi contraffacesse sia punito et condannato per ogni volta in XX lire e più e meno, considerato la conditione della persona e la qualita’ del fatto.

(pag. 9 de’ Le Storie Italiane: Carteggio inedito d’artisti dei secoli XIV, XV, XVI, Vol.2° - pubblicato dal Dott. Giovanni Gane presso Giuseppe Molini, Firenze – Anno 1840)
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Dietro le quinte tutto era pronto. Aveva appena raccolto i fogli, buttato lo zainetto in un angolo, e si era guardato bene dal tenersi lontano dallo specchio, perchè lo specchio è male ed è il regno del diavolo e lui non ci voleva fare pane con quello.
Portava un abbigliamento dimesso, semplice come la circostanza richiede. Voleva essere un ‘candidato perfetto’, perché la santità esige quei doveri che a volte anche l’abito dimesso può rendere agevoli.
Lui, quel reading letterario e la sua candidatura a santità avevano un appuntamento da tempo.
Nonostante lo scampanellio nella testa, fatto di visioni creative, e lo scompaginio dei fogli, che aveva preso da casa senza neppure guardarli, aveva il suo futuro in mano e, cosa più certa, il vantaggio dell’autodeterminazione a sostenerlo.

Lui era un “candidato santo” perfetto. Non come tutti gli altri.
Nonostante il dono della profezia, del resto, il santo non conosce a priori il suo stato di santo e neppure, in precedenza, quello di candidato a santo. Ricostruisce la storia brevemente dopo che s’è compiuta.
Lui, invece, affaccendato dietro alle quinte, s’era concesso scientemente il vantaggio dell’auto-determinazione. Senza dubbio un fatto in sè singolare, ma di scarso prestigio se non coniugata con una investitura ufficiale.
Infatti se l’elezione a candidato santo è assunta autonomamenete, cioè nella pienezza della propria unicità e nella sovranità della propria solitudine, non fortifica l’argine della via maestra verso le beatitudini, mentre l’avallo esterno è prestigio e costituisce preferenza sopra ad ogni altra candidatura. 
Anche se ciò poteva costituire imbarazzo, lui aveva dovuto fare appieno i conti col proprio ‘integralismo’. Oggi era pronto e cosciente. Quel reading gli offriva l’occasione giusta per l’avallo: “candidato santo offertogli su un piatto d’argento dall’Olimpo della critica letteraria.
Lui era in fermento, dunque, da dietro quelle quinte. La sua lettura di oggi gli avrebbe dato l’avallo. Avrebbe letto, già questo lo aveva deciso, dinanzi a tutta quella critica, schierata come un plotone nella prima fila d’avanti,. come mai aveva fatto,
Sarebbe stata questa la sua apoteosi letteraria, il definitivo passo verso la santificazione assoluta.
Tutto normale, dunque. Tutto pronto. Esporsi di fronte al plotone d’esecuzione schierato, coprendosi il petto solo di quei fogli da leggere.
Ma come si sa il passo è cedevole, se non si funzionalizzano i mezzi per giungere dritti alla meta, e dunque l’avallo e la gloria mai certo, per questo la sua autocandidatura: ma per cosa?
Al sacrificio, chiaramente! Al sacro fuoco letterario e per l’immortalità.
Il sacrificio, infatti, riflette l’ombra della santità, prima di cucirtela addosso. Il sacrificio è una cappa di rispetto, un focolare scappiettante in una casa sicura, un lungo sole di mezzanotte senza la gelida tempesta, che porterà via, piano piano, al candidato santo delle abitudini imponendogliene delle altre.
A tavola, per esempio. Un’abitudine sciatta. La carne è ricchezza, le radici no. La sazietà è carne, la soia e le julienne di bambù, invece, fame e pietre d’angolo di santità.
Lui, ancora con quei fogli spiegazzati, cosciente della sua auto-candidatura (e della necessità dell’avallo critico), mastica, da dietro quelle quinte, aria e creatività. Sogna, il presunto odore di santità accresciuta, versetti che di lì a poco legegrà, più che altro sguazzando lingua e saliva nel catino dentario di un stra-abusato siciliano fatiscente.
Ecco l’idea, avrebbe letto da santo più che da candidato. Doveva crederci, del resto; quanti critici in prima fila, quanta gente, dentro al teatro. Il suo primo vantaggio, farlo con convinzione e crederci alla luce di quella sua biografia, che di lì a poco gli avrebbe il celeste spazio presso gli Archivi Vaticani.
Una biografia, quella di lui. Una storia di uomo degno a candidato santo. Ma che biografia?
L’essere vegano, in primis.
Come detto prima la strada passa dalle radici. Un punto a favore fermo per istruire la canonizzazione di lui. Poi la tecnolgia. Ed eccolo ad armeggiare sul computer perchè nella società delle immagini i video che scorrono come fiumi, ad accompagnare i versetti che si leggono nei readings letterari, sono ben accetti ed aiutano a raggiungere la meta dell’aureola, oserei quasi dire: “più gevolmente”.
E poi, per mettere a parte il computer, e il cibo primo di questo, anche l’abbligliamento, consono e leggero, dimesso su di lui, può fare curriculum. Un secondo punto fermo da sciorinare verso la via della canonizzazione perfetta..
L’abito, in fondo, per un candidato santo può anche essere un fatto tutto concentrato sulle scarpe.
Chi porta delle Tod’s, per esempio, non potrà mai avere la copertura delle Reti Vaticane e neppure la copertina sul “Bollettino di Santità”. Neppure le candidate sante avranno vita facile se indossa le calzature Pollini. Le Valleverde, forse, potrebbero nell’impresa, ma è un fatto di brand: aiutano nel nome, affatto cacofonico e spendibile in un salmo, e sono più ben più comode.
“Tentazioni – mi tuona lui, novello Savanarola, da dietro quelle quinte – proprio come lo specchio!”.
Sarà! ma c’è motivo, forse, per dargli torto?
Per adesso, lasciamo da parte ogni replica per passare dai piedi al resto.
Chi porta un “abbigliamento tunicato” ha il mestiere sicuro del “santo”, perchè lo stile è tutto e la stoffa del “candidato santo” deve a tutt’origine distinguersi da quella del fighettato, appena uscito dai college, e, ancor più, da quella dello sfighettato, già cavallerizzo dei seggiolini del Bingo.
Se però poi al “tunicato” si sostuisce il “pigiamato”, abbigliamento in tutto uguale a quello di lui (che sta a rodersi, da dietro alle quinte, mentre gli altri leggono), e cioè un abbigliamento super-comodo, quasi da notte in camera (e senza l’ausilio di una vestaglia nocciola), si raddoppiano ai precedenti sopra i punti nella classifica dei “candidati santi”.
E la cosa, questa dell’abbigliamento, si fa seria;.anche se il pigiamato è abito di giorno ed ha una fantasia a pappardelle verticali di colore lillà, miste a costine bianco sporco.
Altra possibilità, sempre per maggiorare i punti verso la canonizzazione, è quella di trovare il proprio nome accanto a una freccetta colorata, rossa o verde che sia, con la puntina rivolta all’insù o all’ingiù nel gradimento critica del “Bollettino di Santità”.
Questo il nostro lui lo sa e per questo da dietro le quinte scalpita.
Il chi sale e chi scende in settimana, chiaramente, segnala, ma all’aspirante devoto del papabile beato, da parte del critico (la prima fila ne è, appunto, piena per questo), già il santo in ascesa a cui votarsi e a cui si dovrà accendere il lume votivo quando sarà il tempo.
La critica è spietata nel suo giudizio, nulla da fare: i-na-ppun-ta-bi-le. “Polvere eri et polvere tornerai” (citazione d’obbligo per l’ex candidato santo che esce fuori da classifica).
Lui, sempre da dietro le quinte, oppure lievitando sul palco gesticolante (l’impressione è quella d’agevolare le altrui letture in scaletta, mentre il recondito pensiero è votato a togliere quell’imbarazzante proscenio e concentrare su sè gli sguardi dalle poltrone della critica), ha tanti chilometri di vantaggio verso l’aureola: la dieta giusta, perchè vegano, l’abito adatto, perchè pigiamato (anche a meno 25 gradi fuori), e, più di tutti, si badi bene la classe “da santo”.
La classe da santo richiede, infatti, nonsì la scarpa bensì il sandalo. Un evergreen d’impatto, nella tipologia degli accessori utili al candidato, per restare per secoli nella graduatoria del “Bollettino di Santità”.
Sempre da dietro le quinte tutto era pronto e tra le dita di lui, rapacementi accartociati, i fogli da leggere. L’analisi del candidato santo, però, non è ancora finita, tra tutto e tutti, resta ancora il penultimo elemento: l’importanza del pelo. 
L’iconografia bizantina, ma anche quella catacombale dei primi martiri romani (e non), ci fanno notare che il pelo ispido, folto e spesso canuto, è segnalatore di saggezza e di miracolo in chi lo porta. Da qui una moltitudine di santi (e sante) pelosi. Avete del resto mai visto un quadro o un’immaginetta votiva con un santo glabro? Rifletteteci!
Lui, invece, da dietro quelle quinte scalpitante, coi foglietti in mano e il versettino pendulo sul labbro, volendo lasciare un’impronta nelle storie sopra alla “santità” ha deciso il cambiamento, “modernità e misericordia, queste le mie parole d’ordine!”, dice.
Modernità, come quella di una bella macchinetta per rasoiarsi i capelli, passata sul cranio quotidianamente per lasciarsi una scia di pelucchi ispidi, del tutto insignificanti al tatto.
Misericordia, tanto per non deludere i tradizionalisti dell’iconografia, con una bella barba, che in lui sono peli cresciuti da un ante-pizzetto, molto più glamour nella caccia di nuove file di adpeti e credenti dell’autocandidato a santo.
Infine, e questo lui ce l’aveva – sempre a seguirlo silenzioso come il profumo Armani indosso – il discepolo amato, il primo: Federico.
Lo so già, non ditemelo, il nome del discepolo è importante, chè il santo non può essere santo sennò.
Federico ovviamente non è nome accattivante, manca d’appeal per la causa di beatificazione. A un altro personaggio andrebbe su misura, abusato come nome d’imperatori, ma da qui a farlo discepolo!
Che fare?
E il candidato santo, che vi credete, pure lui non scherza. Tre nomi: “Filippo, Giorgio, Maria”, che già a recitarlo nelle novene le vecchiette sfiatano di botto. E poi, come potrebbe entrare un nome così lungo nella imaginetta votiva dei fedeli?
Comunque tutto è pronto, sempre dietro le quinte, nella sala applaudono, l’ultimo lettore ringrazia, è il turno del candidato santo. Viene chiamato sul palco.
“Filippo Giorgio Maria”, applauso.
“Filippo Giorgio Maria”, ripetono.
Entra prima il discepolo amato: Federico in silenzio.
La critica in prima fila rumoreggia.
Poi l’autocandidato santo: Filippo Giorgio Maria, martire beato delle sacre lettere (o almeno lui ci spera).
E’ il momento. Il punto decisivo. L’avallo.    
In un reading non hai tempo per pensare, devi solo espettorare. Leggere dai fogli e convincere.
Dietro a te scorreranno le immagini, ai lati la musica, davanti il mutismo del pubblico.
Se convicerai t’inciteranno a proseguire, al contrario sennò meglio lasciar perdere.
Filippo Giorgio Maria sa tutto questo. La vita gli si srotola davanti agli occhi tutta in un attimo. Il discepolo amato alle sue spalle neppure se ne accorge. E’ serio, concentrato su sè stesso dentro lo spirito, silente e infuso.
Leggi Giorgio Maria. Leggi Filippo e sarai santo! (Anche se poi, e finalmente, dovrai sceglierlo secco un nome fatto di cinque lettere: Nunzio ... ed apostolico aggiunto sarebbe di fatto perfetto).  .
Filippo Giorgio Maria sa che non ha più scelta; ha il proprio destino in mano.
Allarga il primo foglio e lo guarda, senza pensare espettora: “Buttana. Buttanissima, ma Troia no, questo non me lo posso dire.”
Dalle prime file si avverte un fruscio di tessuti, sono i critici; dalle seconde altri sommessi rumori, familiari e amici; dalle terze in poi le orme cigolanti e pavimentarie degli aspiranti devoti.
Tutt’intorno allo spazio teatrale un tramestio veloce che guadagna di corsa l’uscita.
Di spalle al leggio le immagini s’inceppano, il pc si spegne, le luci calano d’impatto ed è subito notte, nella sala fredda e svuotata.   
L’indomani sul “Bollettino di Santità” si legge.
“Inciampa sulla via di Damasco e si rompe l’aureola. Autocandidato santo si frantuma, restano sul selciato le ceneri letterarie di un’aspirazione perfetta che il vento portò via”.
Dei miracoli non esistono, nemmeno quando cambiano i fogli, i peli, la lingua e il cibo. L’abito non è tutto e neppure i sandali.

Tommaso Gambino    
- A seguire: “La Retro-Storia Fotografata” -




Retro-Storia fotograta:



Immagine 1

 L’autocandidato santo e il suo primo amato discepolo



Immagine 2

Lo Spazio del Teatro come una chiesa



Immagine 3


"No tengo Santitad"