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mercoledì 21 gennaio 2015

Strangolata morte di Fifuzzo

La corda che ho stretta attorno al collo pesa, mi da fastidio. E’ un macigno. Lo è stato per molti, ma adesso lo è per me. E’ l’unica cosa che mi ha tenuto in vita e al tempo stesso quella che potrebbe togliermela da un momento all’altro, appena quei cani iniziano a tirare. Il fiato è pesante. Sento raschiarmi la gola anche se non hanno già iniziato a tirare, lo so cosa mi aspetta.

Sento nei polsi la scavatura delle corde strettissime, che quasi mi fanno perdere la sensibilità alle mani. Le stringo più forti che mai, li strangolerei io di persona questi traditori. La rabbia è incontenibile. Non mi arrenderò mai davanti a loro. Vorrei urlare, strapparmi i vestiti, rompere questa sedia. Ho voglia di fargliela pagare, a quei traditori. Mi hanno usato come un pupiddu. Stupido e immobile nelle loro mani. Vendetta. Se potessi essere io a stringere la corda attorno al loro collo. A guardare nei loro occhi la vita che scappa via dall’ammasso di carne ed ossa.
Ma la situazione è ben diversa. Immobilizzato, senza alcun potere, sono diventato merce nelle loro mani. Sono carne da macello. Sono di troppo, per Cosa Nostra. 
Tutto quello che ho fatto l’ho fatto per proteggere la mia famiglia, le persone che amo. Non mi pento di niente nella mia vita, ma adesso ho paura.
Paura che dopo la mia morte non ci sia nessuna altra vita, niente di niente. Solo un eterno e profondo silenzio. Ho paura che dopo la mia morte non ci sarà una vita per i miei figli, per mia moglie. 
Finiu Fifuzzu.

Filippo Marchese non lo sapeva ma era già un cristiano morto ammazzato quando se lo portarono in un magazzino a San Lorenzo, dove 'un ti viri nuddu. Gli gonfiarono la faccia a legnate, buttava più sangue di un crasto. Lo hanno ridotto una pietà. Manco u signu ‘ra cruci l’ha salvato. 

Dopo che l’hanno scannato, lo legano in quella seggia di legno che di come faceva a poco si spaccava. Gli mettono una corda fina fina al collo e poi uno r’un lato e uno dall’altro. Scarpuzzedda lo talìa in faccia e ride. Iniziano a tirare. Filippo Marchese addiventa rosso come un pomodoro. La faccia piena di sangue, lui incazzato come una bestia. Si mette a scalpitare come un cavallo. Poi apre la bocca, come per cercare ancora aria. 
A mmìa?
Stramazza. Se lo caricano di peso e lo buttano a terra. Poi vanno a scoprire la vasca che c’aveva un fuoco addumatu sotto. Inizia a bollire e lo buttano dentro, come si fa con la pasta. Come si dice, carne e sucu e finiu 'u vattiu. Di Filippo Marchese non rimangono nemmeno i denti. L’odore, però sì, faceva feto Filippo Marchese…



Da qualche parte ‘u curtu guardava gli alberi - stavano morendo, uno dopo l’altro. Questa malattia che ci si attaccò quest’anno non ne ha fatto crescere nemmeno uno. Agli alberi di Corleone questo non è successo mai. Mai una mala annata da quando li coltiva lui. Perché la campagna è la sua passione. E’ dove si passa il tempo libero, a curare esseri viventi. Almeno le piante danno soddisfazioni e non le devi eliminare. 

‘U curtu quel giorno doveva staccare le erbacce. Quelle che crescono sulle radici delle piante buone, quelle che rubano l’acqua, la linfa, la vita. Quelle che sono di troppo. Iniziò a zappare girando attorno ad un albero di limoni, che di soddisfazioni gliene aveva date tante. I limoni sembravano d’oro. Ci portavano sapore al pesce fatto bollito.
Poi le arance. Che belle, le arance di Corleone. Più dolci dello zucchero, faceva una fiura quando le metteva a tavola, tutti entusiasti. Facevano buoni tutti, scontenti nessuno. Buone, le arance dello zio Totò.


Quando si calò per iniziare a zappare, però notò una cosa. Una cosa strana, mai l’aveva vista. Il tronco dell’albero perdeva colore. Era giallo e verde, mischiati. Era il colore della morte. Stacca una foglia e la annusa, ma non sente nulla. La foglia poco poco si sgretola nelle sue mani, ne era rimasta soltanto la bellezza e non più l’odore. Si alza in punta di piedi per scegliere un’arancia da prendere. Quella più in alto di tutti, che se era mangiata dagli uccelli significa che almeno il sapore era buono. La sbuccia con il coltello che non gli manca mai dalla tasca e la assaggia. 
La sputò - albero corrotto. Quell’albero doveva essere eliminato, non serviva più a nessuno. L’operazione gli prese tutto il pomeriggio e dovette occuparsene lui di persona. Non lasciò nulla. Nemmeno le radici. L’albero andava distrutto, il legno macinato. Così non ne sarebbe rimasto più nemmeno il ricordo. Appena finì il lavoro si cambiò la camicia. Mentre usciva dalla campagna vide arrivare una macchina. Era quella di Scarpuzza. Prese una mela dall’albero più giovane che aveva nella campagna. 
Perciò,come finì?
‘Zu Totò non si deve preoccupare. Filippo Marchese è un uomo morto e non ne rimane nemmeno il tanfo.
Bene, bravo. Nemmeno il tanfo deve rimanere.

Almeno una buona notizia, a Totò Riina, gliela dovevano dare.



Antonio Mineo