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lunedì 9 marzo 2015

L'arancina




‘U zu Totò, ogni domenica mattina, piovesse, tuonasse, o addirittura nevicasse, a meno che non fosse costipato o con il femore rotto, lui doveva mangiare un'arancina, e anche due se la sua squadra giocava in casa, perché diceva che portava bene. Ma, mica una arancina normale, lui mangiava quelle da mezzo chilo a salire, e con la carne le voleva, anzi con il capoliato, che era uomo di salde tradizioni, e quando una volta aveva sentito chiedere da un catanese di passaggio un arancino, in tre lo avevano dovuto tenere, e il catanese se ne era dovuto andare di corsa. L'arancina è fimmina, e come la fanno qui, è una bomba.
Pensate come ci rimase male quella mattina quando ancora calda e sfrigolante tra le mani, (la bocca nell'atto solenne del primo morso), l'arancina come animata di vita propria, con un balzo improvviso si sollevò, liberandosi dal tovagliolino di velina già bello inzuppato, rimase per un istante sospesa e poi si lanciò, proprio come una bomba, verso il bancone della friggitoria.
Zu Totò, ma che fu? Disse uno, mentre u zu Toto, bocca ancora semi spalancata, e gli occhi sbarrachiati, non riusciva ad articolare parola, vide fare un secondo balzo e un  tuffo nell'olio bollente. Tradimento! Gridò l'uomo privato del suo bottino. Aiutatemi, aiutatemi. L’arancina è indemoniata!
L'arancina dopo due o tre giri che sembrava una nuotatrice di nuoto sincronizzato, saltò fuori come sputata per atterrare sul banco, dove altre sue compagne aspettavano di friggere, si dette una scrollatina e si liberò, prima della crosticina dorata, che qui nessuna arancina si spaccava, poi fece scivolare l'uovo e infine il latte, (che era un trucco del mestiere). Rimase così, col riso di fuori per alcuni istanti, un po' vergognandosi che si era abituata al suo abitino croccante, poi accadde l'impensabile: i grani di riso cominciarono ad allentarsi come dei mattoncini senza collante, scolorirono, si atomizzarono per esplodere come una supernova, i chicchi finirono dappertutto per poi radunarsi come calamitati sul tavolo; il capoliato, che era il nucleo pulsante, si trasformò in un animale che aveva la testa di vitello e il posteriore di maiale, perché il ragù si faceva metà e metà, i piselli da mosci e sfatti, riacquistarono vigore e turgore, e smarriti finalmente liberi dal sugo cominciarono a guardarsi intorno in cerca del baccello, ma nella spazzatura alcuni videro una scatola con scritto pisellini primavera surgelati.
I chicchi dal tavolo furono risucchiati dentro un pentolone d'alluminio dove Fofò di solito faceva il risotto, il bollore, svanì, l'acqua si asciugò, il vino evaporò, e la cipolla ritornò intera, si spense anche il fuoco. Un cubetto, (un dado?) si riavvolse nella carta argentata e sparì in una scatolina su cui una tipa, che somigliava a Nicoletta Orsomando, sorbiva un cucchiaio di brodo.
I chicchi finalmente asciutti cercarono la scatola sottovuoto, quella dove c'è scritto 100% italiano, ma siccome il vecchio panellaro era andato in pensione, il figlio il riso ora lo comprava dai cinesi, e si giustificava con se stesso, “il riso è originario dalla Cina, e allora io sto rispettando la tradizione. L'arancina è d'origine cinese. I chicchi compresero allora che il viaggio di ritorno sarebbe stato lungo e travagliato, non erano sicuri di riuscire a sopportare il fuso orario, loro al massimo conoscevano il burro fuso, e non si volevano neppure imbarcare come clandestini. Anche loro cominciarono a gridare Aiuto, aiuto.


L’aran cin

Si narra che nel paese della grande muraglia in una città bagnata dal fiume giallo, nella regione chiamata Aran cin regnasse un sovrano innamorato della neve.
In realtà in quella regione che nevicasse era davvero difficile, il clima era temperato e l’ultima neve si era vista durante la dinastia Shang.
Il sovrano era parecchio capriccioso, e infatuato di racconti leggendari su Marco Polo, fantasticava di una città dove la neve cadesse tutto l’anno, le case si specchiavano nel ghiaccio, i tetti fossero ricoperti di glassa gelida e nuvolette di fiato accompagnassero i passanti.
Fu così che in mancanza di neve fece tappezzare le case e i tetti del suo piccolo regno di riso. Il riso veniva fatto cuocere in enormi pentoloni fino a raggiungere una consistenza collosa, di modo che poi si attaccasse alle cose così come si fa con i manifesti. L’attacchino del riso era un mestiere molto ambito. Tutto aveva una consistenza gommosa e nivea. Volle anche dei pupazzi di neve di riso in bella mostra davanti l’ingresso del suo Palazzo.
Il popolo era obbligato a coltivare il riso e a patire la fame dovendolo cedere per soddisfare il capriccio del sovrano.
Nella città di Aran cin in una casa molto povera abitavano una bambina molto magra, uno stecco di vaniglia e la nonna, vivevano di quel poco che l’orto offriva e del latte di una capra dispettosa. La bimba, chiamata Va ni glin, la notte aveva l’abitudine di sgattaiolare fuori quando tutti dormivano, e rubare le teste agli omini di neve-riso. Aveva scoperto che quelle rotondità passate nel latte di capra e poi fritte nell’olio bollente erano buonissime.


Adele Musso