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giovedì 18 giugno 2015

Ai tempi dei mondiali - Era il 1982

Estate 1982, avevo otto anni e una vita davanti per capire. Ci iniziai con il calcio. 
Quando giocava la nazionale il mondo smetteva di girare e si ascoltava un unico respiro, contenuto, che esplodeva in giubilo se la palla finiva tra le maglie della rete. Quella era l'unica occasione in cui poter gridare a squarciagola senza essere rimproverati.
Dovevo anzi stare attenta e non distrarmi, gonfiare i polmoni e svuotarli al momento giusto assieme a mio padre, il cui urlo tonante mi avrebbe altrimenti turbata per la sorpresa. Era un uomo pacato scontando quei novanta minuti.
Ogni incontro che la nazionale vinceva mia madre cuciva bandiere per i figli, per i nipoti, per i vicini, da appendere ai balconi con l'orgoglio nazionale. Tricolori confezionati con la fodera dei cappotti. Paltò verdi, rossi, bianchi, convertiti in vessilli legati ai pali di una scopa.
Tre fratelli e tre cugini per cantare in coro l'astruso scongiuro, ma assai potente, che sosteneva gli azzurri sul prato: “l'elmo di Scipio, le porga la chioma, la schiava di Roma, Italia chiamò”. 
Una volta campioni scendemmo in piazza coi coperchi dei tegami. Mio zio uscì in prima pagina sui giornali, sul tetto della cinquecento e avvolto in una bandiera come in un cappotto. 
Quel torrente di emozioni provocato dalla traiettoria di un pallone si prosciugò, lentamente, in una pozzanghera d'indifferenza. Mercoledì di coppa, domenica di campionato, europeo e mondiale, la partita del cuore, Borussia Dortmund, Paolo Valenti, ce l'ho mi manca.
Ho sposato un uomo a cui non gliene frega niente.

Barbara La Monica