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mercoledì 11 gennaio 2017

Totò, il pianobar, le pistole

Totò, vieni qua, adesso ci facciamo una bella partitella a briscola. Totò, tu sei pericoloso, il numero uno, il catenaccio delle ville grandi e lussuose.

 Guardavo Totò come si guarda un eroe personale o un dio della discordia. Una passeggiata isterica, la solita chiacchierata tra individui dello stesso sesso sui fatti della vita e –vieni qua, prenditi il caffè che la giornata è lunga- ideologie differenti (e monotone), quasi una dipendenza dai fatti comuni, non essenziali, che ci disturbavano, ci infastidivano: provavamo invidia, le idee latitavano.

Gli uomini comuni penserebbero che i giorni ordinari, quelli veramente ordinari, sono fatti per provare emozioni straordinarie ma noi no, per la nostra cerchia il divertimento rappresentava un ostacolo all’ozio, al consumismo passivo, alla derivazione elementare delle cose. Gli omicidi, al contrario, ci appartenevano completamente, ci assorbivano col sangue e quasi li vomitavamo, ci rimanevano indigesti. Il ferro e la vita circolavano liberi, la macchina su cui viaggiavamo era la somma totale della nostra efficienza e le camionette antagoniste erano sempre troppo lente. Qualcuno ci voleva bene. Non un pelo di barba fuori posto, che poi erano cazzi. Metà della nostra vita l’avevamo passata in un pianobar di provincia, sempre a manovrare le forme; l’altra s’era sfilata dal corpo portandoci dentro un teatro: noi eravamo gli attori, gli interruttori del silenzio, gli uomini della tragedia. I direttori opachi delle grandi possibilità muoiono sempre e alla prima occasione buona ti ficcano un ferro grande e rovente per tutta la lunghezza del buco di culo. Essere stati al centro della storia era stato appagante, un sogno americano in trasferta, e la varietà delle resistenze non ci aveva per nulla distratto dalle priorità delle divergenze culturali dei nostri aguzzini. Nell’età contemporanea è difficile sopravvivere, invasati dalle tecnologie e dai controlli remoti che tutti vorrebbero evitare, che tutti vorrebbero sotterrare, rimandare al mittente. I nostri fatti erano destinati a diventare di pubblico dominio, contaminati, forse, da una modesta quantità di cazzate da televisione. Le gesta eroiche degli uomini sciolti, quelli senza padrone, i numeri maggiori.

Totò, tu lo sai che ti voglio bene, prenditi questo caffè, poi si raffredda. Mi vuoi fare lo sgarbo?

E’ stato scoperto da tempo il motivo per cui veniamo al mondo: sentirsi all’apice della piramide evolutiva, sposare uomini e donne potenti, stringere patti demoniaci per sputare sull’odore del morto e del marcio. Possiamo confermare a gran voce che la nostra era un’occupazione che dava sicurezza, le tasche sempre piene, il pane a tavola. La droga no, quella mai: questione di codici. Il pentimento una piaga universale, la perdita dell’onore e il capovolgimento delle nostre vittorie. Avevamo capito, rottami umani come c’eravamo trasformati, che la dipendenza dai paradisi artificiali era la soluzione a tutte le bestie che avevamo giudicato e messo al rogo. La consapevolezza di una vita anonima ci conquistava giorno dopo giorno. I numeri uno, gli immortali, quelli che non morivano di quello per cui uccidevano.


Totò, ma che minchia di occhi sgranati hai? Questa partita a briscola mi sta scassando i cazzi, è tre ore che siamo seduti come scimuniti e non fai altro che stringermi la mano. Te lo voglio dire, Totò, te lo voglio dire. La cali oppure no quella donna di spade che hai ammucciato sotto il culo? 

Emanuele Scaduto