“… e tu, dove credi di andare?”
Antonio lo guardò perplesso e lo fermò alla porta dell’hangar.
“Please. Fami entrare. Io entrare.
Io prego”
Era nero; era sporco; era mezzo
nudo con indosso una vecchia tuta; ma no, non era malato.
Antonio si fece perentorio: “Ti ho
detto che qui non si entra!” lo strattonò per un braccio. “Ci sono le casse.
Hai capito?”
Il negro non reagiva. Era alto,
solido e curvo come un ulivo ritorto; non faceva segno di allontanarsi.
Ad Antonio montò la rabbia : ”Sei
fuggito dal CAE”, gli urlò a venti centimetri dal collo perché non gli arrivava
agli occhi, ”ora chiamo la polizia.”
Il negro piegò le ginocchia a poco
a poco e si sedette stremato sulle cosce. Aveva la faccia e il grande corpo
screpolati di salsedine, e gli occhi pesti di chi non ha mai dormito. Il fiore
bianco pencolò dalle mani verso terra; lo sollevò con cura, sollevò anche la
faccia. Gli occhi adesso ardevano come di febbre.
“My brother“ , la voce era un
sussurro di vento leggero “io cercare for my brother.” Il suo sguardo tentò di
penetrare nella lunga penombra e si disperò della distesa sterminata di
feretri.
“Sei un naufrago di quelli di lunedì?”
Il corpo del negro sussultò, abbassò il capo come a proteggersi: “Noi … soli.
Solo noi. Risalimo da acqua ma difficile natare tra tanti morti!”
“Vieni via, alzati. non puoi
restare qui. Ti accompagno al campo.”
“No. No! Io cercare fratello” il vento della voce era
sommesso e penetrante come uno spiffero.
“Ma che dici? Lo devi quante sono?”
Antonio gettò una mano indietro a indicare di là.
“Io fiore … su lui … restare. Lui
morto, io qui. Fiore, fiore su lui.”
Ad Antonio vennero i lucciconi
mentre tentava di sollevarlo : ”Come ti chiami?”
“Ahmed”, lo diceva e quasi non ci
credeva lui stesso, “Amhed”. Si toccava il petto con le nocche.
“Va be’, vieni, Ahmed. Cerchiamolo
assieme.”
Antonio tentò di mettergli una mano
protettiva sulla spalla alzandosi sulle punte dei piedi. Si accorse che Ahmed
stava tremando e dovette sorreggerlo, guardandosi intorno se qualcuno poteva
aver visto.
Entrarono nell’hangar abbracciati
come due feriti in una guerra di soli sconfitti.
“Omar, fratello Ahmed”, balbettava,
“Omar Hussaini.”
“Maledetto me! maledetta
burocrazia! Chi cazzo ci ha pensato ai nomi?” Voleva urlare, scusarsi; ma
parole adatte non ce n’erano.
Allargò le braccia : “Senti, Ahmed,
guarda un po’ in giro; io non ti posso aiutare. Ma … vedi … qui non ci sono
nomi. Ci sono solo fottutissimi numeri!”
Porco mondo, pensò Antonio, un corpo
è un corpo; ma quando ha un nome qualcuno può avere un passato, uno straccio di
conforto e rispetto, una memoria una
traccia. Qui ci sono solo cose spoglie, carcasse peggio dei cani: semplicemente
tutto più pulito e inscatolato.
Antonio provò una pietà infinita:
il gigante Ahmed era ancora più smarrito, faceva paura come una montagna in
procinto di franare. Sbandava a destra e a sinistra come una barca ubriaca;
carezzava tutte le bare, allargava la bocca e gli occhi come un affogato; forse
ormai non distingueva più nulla per le sue pupille annegate nei flutti delle
lacrime.
Mentre Antonio si avvicinava per
portarlo fuori, Ahmed cambiò rotta e si
portò al centro dell’hangar: più di trecento salme lo circondavano da ogni
direzione.
Il fiore bianco, lo tenne tra le
due mani giunte; se lo portò prima sulle labbra e poi, deferente, sulla fronte.
Infine lo posò sulla più vicina.
“Sono tutti miei fratelli!”
E s’avviò all’uscita.
Fabrizio Sapio