L’avevo detto che era meglio andarci piano, ma niente,
ognuno s’incornò che doveva portare un piatto pronto – io lo so da dove ci venne
tutta questa smania di cucinare, da quei programmi di cucina della televisione,
che ormai il palinsesto sembra il menu di un ristorante – e allora chi si prese l’impegno di preparare
gli antipasti, chi la carne o il pesce, a piacere, senza un minimo di
coordinamento, per forza che poi sul tavolo, il giorno di Natale a pranzo, tutte
quelle cose non ci stavano - zio Toni e zio Nicola hanno dovuto procurare un
paio di trespoli e ci hanno messo sopra meglio che potevano la porta della
cucina che tanto quel giorno non serviva – eravamo una trentina tra grandi e bambini,
sparsi in cucina e sala da pranzo, nessuno riusciva a capire in quale angolo si
doveva posare, non vi dico la confusione.
La cugina Angela si presentò con una specie di conchiglia
capasanta piena a strabordare di insalata russa – disse lei che aveva iniziato
a prepararla tre giorni prima, per farne una gran quantità bastevole per tutti
- un blob di verdure lesse e maionese che nella sua intenzione doveva aprire lo
stomaco, solo che poi la cugina si era fatta prendere la mano dall’estro
creativo e l’aveva decorata con peperoni carote rape tutti a filetti sottili,
una rete di riccioli barocchi che hanno trasformato il blob in quello che tutti
avevamo sospettato fosse sin dal primo occhio, un cervello di capodoglio con le
sue venuzze sopra.
Come inizio non c’è male, disse ad alta voce la zia Mimma, duecentoventi
chili di trigliceridi e colesterolo tenuti insieme da una vestina a fiori
sgargianti indecifrabili - quella è nata senza il minimo senso del gusto, per
lei parmigiano grattugiato e segatura sono la stessa cosa – e lo disse con
convinzione visto che lei aveva preparato una lasagna multistrato che gridava
aiuto aiuto, mezza annegata nella besciamella (o colla vinilica?) nella teglia
alta di alluminio dove alcuni piselli boccheggianti cercavano disperati di
raggiungere il bordo. La lasagna lamentosa portò il silenzio tra i presenti, la
zia Mimma la divise nei piatti in base al peso corporeo al mestiere al grado di
istruzione di ognuno.
Fermi, lasciate un posto per il tacchino, si fece sentire la
voce gorgogliante di Pietro, fidanzato trentennale di Marisa la figlia dello
zio Nicola - anche Marisa non era più una sbarbatella, stavano insieme ognuno a
casa propria dal primo anno di ragioneria – il tacchino lo aveva cucinato lui
tutto intero con l’intenzione di svuotare il frigo prima di partire per le
acque sulfuree, lo aveva farcito con carote mosce salumi secchi yogurt vicini
alla scadenza croste di parmigiano dadi per brodo gambi di prezzemolo avanzi di
verdure bollite. Il poveretto (il tacchino) sembrava avesse pranzato da poco,
non stava nella pelle, perdeva della roba dalle fessure cucite male, uno
scempio. La massa dei presenti si fece avanti con un oh di stupore in attesa
che esplodesse, finalmente i botti di natale, dicevano i bambini, chissà se si
sono salvati.
E adesso fatevi la bocca dolce, qui ci sono i maxi cannoli
ai sette veli e il pandoro con uvetta e canditi per chi non ama il panettone.
In quel momento ci voleva uno che fermava la zia Lucia con il vassoio in mano, a
costo di farle uno sgambetto da sotto il tavolo, farle capire che non c’era
posto, non ce la facevamo più, eravamo alla fine, il blob russo aveva vinto la
lasagna aveva vinto il tacchino farcito di spazzatura aveva vinto, nessuno
avrebbe trovato la forza di combattere anche contro i dolci. Io sollevai il
tovagliolo da sopra le gambe, me lo passai sulla barba piena di besciamella
vinilica lo legai alla coscia del tacchino mezza spolpata, intorno a me corpi e
conati, sventolai la mia bandiera bianca.
In memoria mi mancano quelle due ore, tra lo sventolìo della
bandiera e il risveglio sul lettino. Sono venuti a trovarmi tutti, la zia Mimma
dice che è un virus che cammina e, se me la sento, domani mi porta un po’ di quella
lasagna che mi è piaciuta tanto e devo riprendere le forze.
Raimondo Quagliana