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lunedì 2 novembre 2015

AAS VINTAGE: Attorno allo zio moribondo

Di tutte le questioni alla fine non sarebbe rimasto che uno sguardo di sdegno e uno sputo non lanciato.

La famiglia era riunita attorno al letto dello zio senza figli, in ospedale l’aveva detto il dottore, quanto dura dura.  La zia era lì – che se ne deve fare lei delle proprietà, neanche nipoti dal lato di suo fratello ha; è giusto che la proprietà resti da questa parte della famiglia, ci sono i nipoti maschi che portano il cognome. Tutti attorno al letto, gesù giuseppe e maria, a guardare lo zio e la sua pelle sottile che copriva gli zigomi sporgenti, maria giuseppe e gesù, che malo colore: meglio sta, è sereno. 

Non mancava la cognata grassa, quelle che in seconde nozze aveva sposato il secondo fratello del moribondo: era stata la cameriera della prima moglie del suo futuro marito, forse già lo riveriva mentre la buonanima ancora boccheggiava; e c’era pure l’altra cognata, quella liricheggiante, ma no che cantava, non cantava per niente, liricheggiante perché se la vita è teatro lei era la prima attrice, destinata alle parti tragiche da declamare, arcuando la schiena all’indietro in una enfasi da cinema muto: pure lei era lì, a tirare il fiato al moribondo. La cognata che dicevano somigliasse a Lana Turner stava un po’ dietro, la scena era già occupata: dove stesse la somiglianza era il gran mistero di cotanto accostamento – bionde entrambe. Insomma, c’erano tutte attorno al letto, con i figli maschi allineati. I fratelli di lui no, stavano fuori: con tutte quelle femmine intorno al moribondo non si poteva stare: preferivano ricordare il fratello in vita, quando da piccoli tutti giocavano a tirarsi le pietre, o quando da grandicelli a questo gli fregavano i vestiti belli, perché lui ci teneva ad essere elegantone; per loro il fratello inerme sul letto era già morto. E poi ognuno di loro aveva la moglie appostata lì, appostata di guardia. Si controllavano a vicenda le cognate, che nessuna potesse approfittare, che nell’assenza delle altre una avesse pigliato qualche pezzo di carta per farglielo firmare al moribondo. Gesù giuseppe e maria, meglio sta, respira pulito, giuseppe maria e gesù, questo meglio di noi sta.



E quando lo zio la domenica si alzò dal letto e decise di mangiare a tavola, che volle la pasta col sugo e una fetta di carne, le cognate non si scoraggiarono. È arrivato il momento, tutti così fanno, pare che si ripigliano e poi crepano – questa cosa però la pensarono e guardandosi negli occhi si diedero ragione: bastarono altri tre giuseppe maria e gesù che,  infatti, lo zio esalò. Non ne poteva più di soffrire. Erano già quattro giorni che stava con un piede dentro e uno fuori. 
Ora non soffre più. Si rassettò, si rasserenò.
Dall’armadio tirarono fuori il vestito bello, non quello del matrimonio, un altro. Che vestiti costosi, pensava la cognata cameriera. Gli mettiamo pure il cappello? disse. Si misero a ridere le altre due, ma il cappello ci fu, lo misero accanto le mani, non si sa mai gli potesse servire.

E poi ci fu la veglia, le cognate chiesero permesso per potersi vestire a nero. Tornarono abbigliate da dive del noir, soprattutto la liricheggiante che tirò fuori un cappello, le altre due un po’ meno per ovvi motivi. E poi ci fu il funerale, tutte in prima fila con lo sguardo affranto e la schiena dritta, da gran signore.
E dopo che il funerale fu finito la vedova sarebbe rimasta sola volentieri. Non era prudente, avrebbe potuto trovare il testamento e se non le fosse piaciuto magari lo avrebbe strappato: le cognate si piantarono nel salotto buono, non era conveniente lasciarla sola, poverina. 
Ma lo zio niente ha scritto? disse il nipote più grande.
La vedova dove stava la questione l’aveva capito da tempo, solo che riteneva fosse offensivo dimostrarlo: guarda nella scrivania, o nell’armadio, lì lo zio teneva le sue carte.
E il nipote guardò, e tra le carte una busta c’era, e sulla busta lo zio l’aveva scritto grande: testamento.
Lo apriamo subito?
No, lo apriamo di pomeriggio che è pure giusto che prima pranziamo e facciamo pranzo. Ci vediamo dopo, alle cinque.
E la busta? La mettiamo qui, sotto chiave.
Alle cinque c’erano tutti, tutti in salotto in attesa della apertura della busta. Se siamo tutti procediamo, disse il nipote più grande. Aprì la busta e cominciò a leggere.
Cara Francuccia, che dovessi andare via prima di te era scritto nel libro della vita; sei stata una moglie affettuosa, sempre premurosa, non avrei potuto desiderare di più del tuo gelo di anguria con il gelsomino o delle passeggiate d’estate tra i susini e gli albicocchi. Ti lascio l’usufrutto di tutti i beni, che la tua vita possa essere lunga e serena. La nuda proprietà la lascio ai due figli di mio fratello Giacomo, sono bambini, gli servirà per realizzarsi, che non si dica che uno della famiglia possa finire per strada.  Tuo per sempre.
Quella che assomigliava a Lana Turner sorrise, le altre due no. Si guardarono in faccia e realizzarono di avere perso tempo. Uscirono da quella casa salutando appena, senza bacio, solo sfiorandosi appena le guance, camminando a braccetto; e mai volsero lo sguardo all’indietro, forse per non guardare il palazzetto a due piani che era finito a quella faccia da pala di ficodindia.

Giorgio D'Amato