Non c’è traffico, potrei tirar
dritto per il percorso che faccio sempre quando vado in azienda, invece svolto e imbocco l’autostrada.
È presto, sono in anticipo e imbocco
l’autostrada.
Il fatto è che vorrei non farmi
sbiadire i pensieri dai soliti colori urbani, a destra la statale rimane troppo
adesa alla città e alle falangi della sua isteria, a sinistra invece è un
balcone sul mare e vorrei non farmi scremare le colpe e le ragioni, vorrei non farti assolvere dal mio mare, vorrei sentirmi intera, oggi, compatta e
adesa contro i miei toni autentici.
È presto, mi dico, mentre svolto e
imbocco l’autostrada, sono in anticipo, io che nel ritardo inspiro a tiri
lunghi ogni molecola d’aria, ogni particella subatomica di vita, cento cose da
fare e briciole di tempo per farne ancora una, io che non si spreca nulla,
nemmeno un grammo di vita.
Sono in anticipo e imbocco
l’autostrada, farò un giro più largo, allungherò un bel po’ e dovrò tornare indietro,
parecchio, ma sarò ugualmente in anticipo, ma resterà del tempo, tanto tempo,
ancora da inspirare a vuoto, un lusso,
come una sigaretta accesa e gettata via dopo due tiri.
Se fumassi fumerei sempre fino alla
fine ogni singola sigaretta, l’aspirerei a fondo fino in fondo e oltre, a
sentirne l’amaro, l’acre, a sentire il piacere diventare disgusto. E allora la
schiaccerei, stizzita e delusa dal quel sapore acre, dal sapore amaro, dal
disgusto che prima era piacere, e mi direi che sono una stupida a non fermarmi
prima, a non lasciare un piacere quando ancora è un piacere, nel punto in cui
ci si può fermare prima che diventi disgusto.
Se fumassi.
Se fumassi, farei così ogni volta.
Arriverei al disgusto ogni volta, pur avendolo potuto prevedere, pur avendolo
potuto evitare.
Era da tanto che non facevo
l’autostrada e oggi è una frenesia di oleandri che direziona i pensieri verso
stagioni nuove, c’è un’aria buona che preme fuori dal finestrino, un’aria
nuova, come quando in casa si lavano le tende, è un maggio che si porta avanti
con l’estate, peccato dover tornare indietro tanto presto. La prossima uscita è
già la mia, poi la circonvallazione come una lunga serpe che mi riporta
indietro verso il bar dove tu mi troverai tra poco meno di un’ora, ed è ancora
presto, uno spreco di tempo e d’aria nuova, un lusso di minuti, peccato doverli
buttar via ancora vuoti.
Parcheggio facilmente, vista l’ora.
Il bar, il nostro, il bar di tanti incontri senza fiato nelle feritoie delle
giornate sature inspirate a fondo fino in fondo e oltre, il nostro bar ha
l’aria sospesa di uno che non ti sta aspettando e ti saluta con una irregolare
messa a fuoco, distratto da una domanda implicita di ordine mentale.
Mi siedo al solito tavolino, chiedo
il mio caffè d’orzo.
Ancora mezz’ora e sarai qui, sempre
puntuale tu, come una questione di principio.
È presto ma occorrerebbe più tempo,
penso, per tirare le somme, fare un’analisi dei costi, falsare il bilancio.
Tra mezz’ora sarai qui, e mi dirai
nervosamente che hai scelto lei, con franchezza però nervosamente, in difesa,
pronto al balzo in avanti. Sarai breve, non per pudore o timore di ferirmi,
semplicemente perché per te le cose sono sempre maledettamente asciutte,
lineari, prive di inutili dettagli. Sarai subito distratto dagli aspetti
pratici della faccenda, mi chiederai aiuto.
Ti aspetterai che io te lo dia. E io sarò al di sopra delle tue
aspettative. Mi sfilerò la fede e l’appoggerò sul tavolino, avrò il sangue
freddo di un sorriso. Non dirò nulla.
Respirerò il mio tempo, questo residuo amaro del tempo ancora nostro, in
silenzio, lo inspirerò a fondo fino in fondo. E non andrò via per prima,
sapendo bene che me ne pentirò, sapendo bene che sarebbe meglio prevenire il
disgusto dell’ultimo tiro, sapendo che poi sarò stizzita e delusa dal sapore
acre delle mie non scelte.
Eccoti, sei puntualissimo, ed
esattamente con l’aria che pensavo, nervoso e spavaldo, la spavalderia come un’imbottitura contro il
freddo. Ti ci stringi dentro con quel tuo movimento delle spalle, ci trovi
protezione.
Mi guardi mentre ti siedi, e so che
dovrei parlare io per prima, gettare via la sigaretta prima che arrivi in
fondo, evitare l’amaro, il troppo amaro, almeno.
Mi chiedi dei bambini, non mi
ascolti mentre rispondo ciò che sai già: che stanno bene, che sono con tuo
padre.
Mi guardi, poi ti guardi le mani, mi
dici scusa se ti ho fatto fretta, forse potevamo parlarne stasera a casa ma con
i bambini è impossibile, volevo che fossimo soli, una volta tanto.
So cosa stai per dire, ed è come
guardare una grossa pietra che sta per colpire una finestra, la mente anticipa
il fragore, le traiettorie stellate e aguzze del vetro che si sorprende in
schegge.
Mi guardi, poi ti guardi le mani
mentre mi dici perdonami Lidia, ma devo chiederti di lasciare il tuo lavoro, lo
so che ci tieni tanto ma in fondo, per quello che ti danno, e io ho bisogno di
te in ditta, devi riprendere il posto di Roberta, lo sai quello è il posto di
maggiore responsabilità in azienda, diocristo, questa ha in mano tutto,
capisci?, aveva in mano tutto e mi molla da un giorno all’altro, dice che ha
conosciuto uno e domani se ne parte per Berlino, ‘sta stronza…..
Ti guardi le mani come se guardassi
le parole che dici, come se fossero qualcosa di concreto e morbido, come
un’imbottitura contro il freddo, e ti ci stringi dentro con quel tuo movimento
delle spalle, per un istante sembri proprio trovarci protezione.
Patrizia
Sardisco