La pioggia si infrangeva sul parabrezza, così fitta che i tergicristalli non riuscivano a rendere la
visuale chiara al di là del vetro. Era venerdì diciassette. Essendo sempre stata superstiziosa
prevedevo qualcosa di orribile. Ma ero con lui. Eravamo fermi in auto.
Fuori il freddo intenso di
quell’uggioso dicembre faceva appannare i finestrini, creando un gioco di luci e ombre ancora più
tetro. Provai a rimanere calma; provai a non piangere. Lo guardai sperando che nei miei occhi
potesse leggere la paura e il terrore. Sperai che si sarebbe impietosito davanti al mio viso da
ragazzina, i lineamenti morbidi, le labbra bianche. Avevo solo quattordici anni e non sapevo perché
ero arrivata a questo. Dentro di me sentivo che sarei dovuta andare via, scendere dall’auto e
scappare nonostante la pioggia. Ma a quattordici anni resti immobile, in balia degli eventi. A
quattordici anni hai solo paura.
“Andiamo?” “No… ti prego, aspetta… Non sono pronta… Ho paura… ti prego, portami a casa… è
tardi, mia madre chiamerà da un momento all’altro”. I suoi occhi mi fissavano senza guardare ciò
che speravo notassero. Il suo volto s’irrigidì, i denti stretti dalla rabbia gli facevano contrarre le
guance. Era furioso. Strinse i pugni. Distese la mano e quelle dita tozze, callose, ancora sporche dal
lavoro, si alzarono toccandomi la testa in una carezza profonda, pesante, tirandomi i capelli. “Ho
detto che devi scendere amore!” Non avrebbe mai potuto farmi del male quel ragazzo così dolce,
sempre perfetto. Ci conoscemmo qualche mese prima, lui mi fissava. Spesso si allontanava dai suoi
amici per parlare con me. Tra tutte le mie amiche, tra tutte le ragazze che frequentavano quel parco,
tra tutte le ragazze del mondo, aveva scelto me, solo me, non parlava con nessun’altra. E per me lui
era il primo. Fu il primo bacio, dolce, intenso, da favola. Al primo appuntamento mi portò a
mangiare un gelato. Scelse un cono enorme, diceva che ero la sua principessa e per me doveva
prendere solo il meglio. Ma ero piccola, troppo imbarazzata, la mia prima uscita con un ragazzo.
Dall’emozione non capivo niente e con l’innocenza che solo una ragazzina inesperta poteva avere,
decisi di prendere un unico gusto, il limone. Che ridere. Ci ridemmo su per tanti giorni ancora. Tra
tutti quei gusti avevo scelto il più aspro, per di più in una quantità spropositata in quanto avrebbe
dovuto coprire un cono in cui ne andavano almeno cinque. Ridemmo della mia scelta, fu
comprensivo quando mi disse che avrei potuto buttarlo, che non si sarebbe offeso, e corse a
comprarmi un altro gelato dei suoi gusti preferiti, più piccolo, più dolce. Era pieno di attenzioni. Mi
chiamava tutti i giorni, ci scrivevamo a ogni ora, mi ricaricava puntualmente il telefono pur di
sapere cosa stessi facendo. Mi portava in giro, mi riempiva di regali, mi veniva a prendere a scuola.
Ma ogni volta mi aspettava in auto, lontano dall’uscita, in un luogo appartato. Nessuno doveva
vederci. Nessuno doveva sapere di noi. Era il nostro segreto. Cosa avrebbero pensato gli amici se
avessero saputo che frequentava una quattordicenne? Lui era grande; dieci anni sono troppi per la
gente, ma non per noi. “Sei così matura, così donna”, mi ripeteva. Lui l’aveva subito notato. Vedeva
brillare nel mio sguardo qualcosa che non aveva visto in nessun’altra. E a me piaceva. I suoi occhi
verdi, quelle mani così grandi, le sue continue attenzioni, sentivo di stare con un uomo, e ciò faceva
di me una donna. Mi sentivo grande e mi piaceva. Ma ero una ragazzina. E lo ero anche quel
venerdì. Mi costrinse a scendere dalla macchina, sotto la pioggia. Mi prese per mano, stringendola
forte, come se potessi scappare da un momento all’altro. Eravamo di fronte un grosso cancello
verde che si apriva su di un cortile trascurato. Davanti a noi una scalinata portava al primo piano di
una fatiscente palazzina. “Era casa di mio nonno” mi disse “Quando è morto l’ha lasciata a me,
presto potremmo venire a viverci insieme”. Ad ogni scalino l’odore di terra bagnata e naftalina si
faceva sempre più forte. Mi strinsi a lui. La pioggia, il buio, il terrore, mi fecero capire che avevo
bisogno di protezione. Di quella protezione che mi aveva palesato fino a quel giorno e di cui, quella
stretta da cui non potevo liberarmi, speravo fosse conseguenza. Aprì veloce la porta, un
appartamento buio e senza luce si estendeva davanti a noi. Si affrettò ad oscurare ulteriormente le
finestre, lasciandomi tremante all’ingresso. Mi fece cenno con la luce del telefonino dall’ultima
stanza del corridoio. Mi avvicinai piano, sarei voluta andare via, ma ero bloccata lì. Non potevo
scappare, la porta alle mie spalle era chiusa a chiave. Presi coraggio e avanzai lenta. Il rumore delle
suole bagnate sul pavimento si alternavano all’assordante battito del mio cuore. Tremavo. Avevo
freddo. Freddo e paura. Vecchi quadri polverosi mi seguivano con lo sguardo. La polvere mi
pizzicava il naso. Entrai nella stanza. Era davanti a me, con i pantaloni già abbassati. Mi pietrificai
nel vederlo semi nudo che si masturbava. Non sapevo cosa dire per evitare che accadesse. Non
sapevo cosa fare. Lui mi raggiunse e mi strinse il viso con una mano.
“Muoviti, stenditi” “Ti prego amore… amore mio… non ce la faccio… non voglio… non sono
pronta…” Nel buio vidi di nuovo le sue guance contrarsi. Stringeva i denti dalla rabbia. Mi prese
per i capelli e mi tirò fino a quando con una spinta decisa mi buttò sul letto. Mi slacciò i pantaloni.
Era forte, molto più forte di me. Quando mi afferrò le mutande, iniziai a piangere. Lo supplicavo di
smettere, di darmi tempo. E mentre mi spogliava mi tappava con una mano la bocca. Provavo a
dimenarmi sotto il peso del suo corpo che mi bloccava mentre mi toccava. Volevo dirgli che mi
faceva male, ma la sua mano premeva sempre più a fondo. Non riuscivo a respirare. Mi guardò fisso
negl’occhi e mi diede uno schiaffo: “smettila di urlare… sei proprio una bambina… guarda qui che
schifo… non sei bagnata neanche un po’!” Ero sconvolta. Attonita. Col viso ancora intorpidito dalla
prima botta quando lasciò la presa e si alzò, rimasi immobile per paura di un nuovo schiaffo. Era a
cavalcioni su di me, si sputò sul cazzo e mi penetrò. Faceva male. Bruciava l’anima. Ero
pietrificata. Una bambola dagli occhi azzurri e dai lineamenti gentili. Senza anima. Senza più forze.
Senza voce. Senza dignità. A cui avevano strappato via il sogno della prima volta. Una bambola alla
quale non era stato concesso né romanticismo né tempo per decidere. A cui il sesso era stato
imposto. Non per amore, ma per capriccio. Non mi accorsi nemmeno di quanto tempo passò, né del
momento preciso in cui tutto quello schifo finì. Mi sentivo vuota. Indifesa. Notai solo che si alzò e
corse in bagno a pulirsi. Sentivo il rumore dell’acqua scorrere in lontananza. Pregai che rimanesse
lontano per molto tempo. Speravo gli fosse bastato. Pregai.
Quando tornò mi trovò nella stessa identica posizione. Si stese al mio fianco ed accarezzandomi i
capelli mi sussurrò nell’orecchio: “è stato bellissimo amore mio, ti amo tanto”. Quelle parole mi
risvegliarono. Lo guardai mentre mi porgeva il suo sguardo più dolce. Quegli occhi grandi e verdi
che mi avevano fatto innamorare. Come se niente fosse stato. Come se tutto fosse normale. Come se
mi fossi inventata la violenza appena subita. E mi convinsi che era così. Che forse ero stata troppo
dura, troppo timida, troppo impacciata. Un uomo che ama con quello sguardo non avrebbe potuto
mai fare del male. Un uomo che mi sussurra t’amo ad un orecchio non mi avrebbe costretta, né
percossa o violentata. Forse era proprio quello che volevo, forse le cose funzionano così. Lui da
subito aveva visto in me una donna e quella donna non poteva deludere il suo grande amore. Ma sì,
io lo volevo davvero, l’aveva capito, non ero una ragazzina. È stato davvero fantastico come dice
lui. Tutto perfetto. Così stringendomi a lui lo baciai e sussurrai: “io ti amo di più”.
Claudia Fabbricatore
Il racconto L'oblio ha partecipato al premio Natale Patti organizzato da Associaz. Kaleidos, con il supporto di Associazione Giulia, FUS edizioni, AAS.