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venerdì 17 luglio 2015

Me lo sogno di notte

Ora i capelli li portava corti ma erano ancora ondulati, il castano dorato si era sbiadito, ma la cosa che più mi colpì di lei fu il portamento dimesso.
Camminava quasi curva su se stessa, così accartocciata aveva perso almeno dieci centimetri della sua altezza; volevo evitare il suo sguardo per non mostrarle la mia delusione, ma lei mi riconobbe subito e si fermò per salutarmi. I suoi occhi azzurri contornati da piccole rughe erano ancora bellissimi e parlava con una voce fioca quasi da moribonda; mi disse in pochi minuti che sua madre era morta e anche la zia che lei aveva assistito per anni e che ora lavorava come sarta in un piccolo laboratorio dove cuciva tende; poteva essere questa la ragione del suo portamento, ma sapevo che c’era dell’altro. Poche parole mi bastarono per capire che non era cambiata, l’unica sua grazia era la mansuetudine, quella strana tendenza a calare il capo di fronte alle avversità, piegarsi era per lei una strategia, ne aveva ricavato la sopravvivenza. 

Quello che mi colpì fu il fatto che lei non aveva messo in campo nessuno dei talenti che le conoscevo da ragazza: la bellezza prima di tutto, l’astuzia, la capacità di cercare soluzioni improbabili ai problemi: mi ricordai che lei ancor prima di me, aveva trovato il modo per avere “una stanza tutta per sé” - se l’era ricavata nel solaio dove suo padre ammonticchiava la legna e conservava gli strumenti del suo lavoro di contadino. Lei leggeva, leggeva tanto, proprio come me negli angoli più nascosti della casa, io nel sottoscala alla luce di una piccola finestra del lucernaio leggevo i fumetti che mio fratello lasciava in giro per casa e che mia madre regolarmente bruciava. Io cercavo di intercettarli prima, li raccoglievo in un posto segreto e li tiravo fuori al momento opportuno, uno alla volta; erano fumetti e libri di diverso genere, comics di vario tipo ed origine, così conobbi Messalina e Nerone, i Galli abitanti del villaggio dell’ Armorica e i legionari, anche prima che me ne parlasse la mia prof che sottomisi ad un fuoco di fila di domande da cui non le fu facile districarsi, per quel miscuglio di realtà e fantasia con cui imbastivo le mie argomentazioni.
Lei invece leggeva i fotoromanzi, l’unico motivo per cui si era creata un angolo appartato dove potersi godere in “libertà” i suoi momenti d’estasi. Lei faceva già allora una vita appartata, era critica nei miei confronti quando le raccontavo dei miei “veri” innamoramenti, mi metteva in guardia dai probabili pericoli che avrei corso, mi scrutava con sospetto, eppure io svolgevo una vita molto al di sotto delle mie possibilità, anche quando queste non erano poi tante.
Prima di salutarla mi venne come un lampo – le chiesi se leggeva ancora i fotoromanzi, no, raramente, disse, non c’è più nessuno dei vecchi protagonisti, e lui, lui non c’è più. 
Ma sai, mi disse, ancora me lo sogno di notte.

Rosa La Camera