A casa della nonna Maria si giocava tutti gli anni a tombola, pure quelli con le vacche magre, perché gli ingredienti fondamentali – che erano tre – non venivano mai a mancare.
Il secondo era lo scaccio: semi di zucca, ceci tostati, mandorle, noci, pistacchi disseminati a monticoli sul tappeto verde del tavolo da gioco. Perché il terzo ingrediente era la tombola, giocata a più tornate in attesa che nascesse il bambinello. Le cifre sbiadite sulle cartelle macchiate qua e là dall'unto degli anni grassi si puntavano con le bucce, le pellicole, i gusci, le scorze, che per semplificare si chiamavano scocce. I numeri venivano mescolati dentro la calzetta a righe del nonno Tommaso, del quale in tal guisa si onorava il ricordo.
“23: chi ce l'ha se lo punta...”.
“77: le signorine dell'Upim...”.
“88: le palle di padre Abramo...”.
“47: morto che parla...”.
“Che numero è uscito?”.
Perché la nonna era sorda, ma nella sua campana di silenzio e sotto la lente da vicino amministrava ben otto cartelle comprate al banco per fior di centesimi. Lei però, per puntare non adoperava le scocce, ma si serviva di un sacchettino tirato fuori dal comò per l'occasione. Dentro ci conservava i dentini da latte dei bambini di tutta la famiglia, pazientemente ottenuti per qualche moneta sotto le spoglie d'una coccinella. Ci aveva messo una vita per racimolare novanta incisivi, canini, superiori e inferiori, raccolti tra figli, nipoti e pronipoti, ma ora se li godeva in vecchiaia con la collezione completa.
Quando le toccava la sorte – dalla quaterna in su – usava invece lo scaglione, un canino di dimensioni ragguardevoli ottenuto nel '62 da sua cognata, buon'anima. Si fa per dire, perché in realtà non ne aveva mai potuto sopportare il sorriso tutto denti utilizzato per distrarre gli altri dal nero di seppia che ci aveva dentro. Ma non lei. E perciò quell'anno gliel'aveva preparato bene il piattino con lo scaccio: pistacchi verdi e gherigli dorati sapientemente dosati con qualche guscio.
Barbara La Monica
Barbara La Monica