L'ultima volta
che vidi Antonio c'erano i nostri amici – la schiera dei demolitori. Antonio
parlava della sua voglia di fare cinema, il piano americano, i carrelli, il controcampo,
i nostri amici ad ascoltarlo sino a che Antonio non ebbe più nulla dire; fu allora
che cominciarono a sfotterlo, con divertimento apparente e con celato
risentimento, lo chiamavano “il regista” tacendo gli attributi a completamento
del titolo ma dietro il loro spirito faceto c'era la rabbia di chi restando si
sarebbe accontentato di prospettive di scarto, tutte quelle che Antonio
rifiutava destabilizzando le certezze facili di ragazzi che non vedevano oltre
la gratificazione di una maglietta Lacoste addosso, di una motocicletta o di
un'auto a tre volumi, di una ragazza abbastanza bionda da portare in discoteca,
di un pacchetto vacanze in un villaggio Valtur.
I denti divennero appuntiti, le
lingue avvelenate, bisognava convincere Antonio che la sua era una illusione,
che il cinema esisteva sì ma non per lui, sono altri quelli che fanno i film,
altre persone che vengono da altrove, persone raccomandate, forse nemmeno umane,
a fare i film sono entità misteriose dotate solo di nome e cognome, citate
prima del titolo prolungando l'attesa per l'avvio della storia o alla fine,
quando ormai tutti si sono alzati per uscire dalla sala cinematografica; dei
film esiste solo quello che si vede, esistono gli attori e la trama, esistono
le battute, Antonio tu sei troppo
convinto, tu sei tutto fissato e hai troppo la testa n'tall'aria - la
figura del regista apparteneva alla sfera di quelle cose di cui non c'era
immaginazione, i film si fanno da soli, esistono dal momento della loro
proiezione (qui si muore, piano piano, tutti i giorni: ogni respiro che fai è
un respiro in meno che ti resta, vivi più a lungo se smetti di respirare,
adattati, se le cose non ti vanno bene la colpa non è tua, è di questa terra
che è troppo secca, lo leggi pure sul giornale che oggi ha una pagina piena di
fotografie di estortori ma domani riporterà che si continua a mettere colla
nella serrature delle saracinesche dei negozi per minacciare chi non vuole
pagare il pizzo, qui il tempo è feroce, non è armato di denti da squalo ma ha
lime raspose, prende le cattedrali dei tuoi progetti e con due colpi ne fa
casupole senza imponenza, non te ne accorgi, lui lavora di cesello alle spalle
tue che rimandi sempre il momento in cui ti incazzerai per dare alle cose
della vita la direzione che vorresti,
poi un giorno guardi indietro e non vedi niente, certo avrai il tuo benessere
tiepido fatto di un appartamento che non è la villa di chi ha fatto tanti soldi
con il commercio all'ingrosso di mangime per polli o pesci di allevamento, una
moglie non contenta ma neanche infelice, figli a cui deleghi la tua vendetta
contro il mondo che non hai affrontato con il ghigno giusto, un'utilitaria
comprata a rate ma dello stesso colore dell'auto di quelli che ti comandano,
una maglietta che non ha un coccodrillo ma una lucertola senza denti; provi a
far quadrare un bilancio, attribuisci un valore di sovrastima alle rimanenze,
fai un inventario degli elettrodomestici che hai accumulato grazie alle
finanziarie a tasso zero, ma la sensazione è amara - l'odore di bruciato punge
quando a prendere fuoco sono i tuoi progetti - il tempo travolge, bisogna
essere più veloce di lui; e ti vengono in mente i propositi di andare per
sentieri non percorsi, il piacere sottile di quando con la vespa mi avventuravo
per strade ignote per il gusto di scoprire dove portavano – a quella volta che
imboccando una traversa dei valloni per Ficarazzi mi ritrovai per una strada
che dopo parecchi chilometri sboccava a Misilmeri e mi sembrò di essere un
esploratore, sebbene quella via fosse asfaltata e costeggiata da case, molte a
vista e altre nascoste da rampicanti fitti -; ti accorgi di aver messo i piedi
su impronte già segnate, con una vita addosso che non tiene conto della misura
e della forma dei tuoi desideri - un abito anonimo, un sacco sformato -, di non
avere mai imposto una sola parola contro la pretesa altrui di decidere per te
l'indirizzo dei tuoi studi, il posto dignitoso tirato a linea retta tra la
firma del contratto e il pensionamento, persino dove fare la spesa per
risparmiare pochi centesimi nell'acquisto del detersivo per i piatti, come
trascorrere il tempo libero dando una tinteggiata alle pareti di casa o una
passata di antiruggine ai piedini dei mobiletti della cucina, di non avere mai
detto no ad amici e parenti fastidiosi per non incrinare i presunti buoni
sentimenti che legano gli individui che trascorrono insieme le feste comandate,
di ritrovarti a dire cose che pensandoci bene non credevi avresti mai
pronunciato; improvvisamente mi scoprii diverso, le gambe corte, le braccia
fiacche, inadatto al volo come le galline che vedevo in quel casotto cencioso
sul tratto di statale tra Bagheria e Ficarazzi, sul portoncino un rettangolo di
compensato, con delle pennellate incerte la scritta “Qui uova”: c'erano le
galline e le pollastre in gabbie diverse per evitare che si ammazzassero tra di
loro, in un angolo dei pulcini, io chiesi a mia madre, ma questi da grandi voleranno?,
mi sentì il vecchietto che di solito era indaffarato nell'aggiungere acqua agli
abbeveratoi o a spazzare guano, no,
questi non sono fatti per volare – disse con la voce roca di un cerbero
– le ali le hanno per finta. In
questo posto tutti sanno tutto e io invece non so mai niente, buona notte).
Giorgio D'Amato