Belville è un
incrocio, crossing over, scambio. La gente corre nel fango, si sa, la
pioggia cade copiosa, fine, a scrosci. Parigi è così. Edith non
gioca, guarda. Le chanteuse cantano storie da balera, ladri, bari,
coltelli. Belville è un incrocio, crossing over, più giù l'Opera.
Beve per strada un
vino di pessima qualità, sputa fuori fiato e note nei bar, nelle
taverne. Ridendo per non svanire, ancora un bicchiere insieme al
baro, al pappone- sputaci sopra, Edith.
In fondo affiorano
gli occhi bendati, sono proprio in fondo al bicchiere, infetti, nel
postribolo di quella donna che fu sua nonna. Le puttane piangevano,
se la spupazzavano come una pupattola.
- Prega Santa
Teresa, Edith.
- Povera piccola,
sua madre l'ha abbandonata tra le piattole di quel materasso tugurio,
da quell'altra.
Le ossa crescono
fragili, non vedono luce, fino a quando gli occhi si aprono.
Scorre ancora grappa
di viticcio modesto per portarti fino all'angolo dell'Opera.
- Grazie, signore –
Canti. Venti anni sono pochi e sono tanti per non vedere un figlio
inghiottito dal vicolo e la strada, bruciato dalle febbri. Sei uno scricciolo, un uccellino canterino dall'ugola potente. Tuo padre un giocoliere che ti ha portato su filo della vita.
- Edith, canta.
Scivola tra fiumi di champagne, lui è arrivato, il tuo pigmalione.
Edith, canta. Sei famosa, sei una stella. Non sei nei vicoli di
Belville, sulla carta stampata il tuo nome è immenso, a New York,
innamorata, famosa, felice. Edith canta.
Senti? - Edith,
risuona il tuo nome. Ma la scena è vuota.
La scena si svuota.
Non basta lo champagne, il veleno che intorbida la mente e scorre
nelle vene, non basta a sedare il dolore che grida più della voce. La sommerge, la spegne.
In una primavera di passi grevi lungo rive d'oceano rilasciando l'ultima intervista, sui ferri da calza l'ultimo calzino, lascia la poltrona del giardino e poi il letto.
Clotilde Alizzi