Google+

lunedì 2 giugno 2014

Cronaca di un suicidio annunciato

Alena quel mattino era sgusciata dal letto prima che la sveglia le ricordasse che era giorno di scuola. Aveva dormito poco e male. Glielo diceva sempre la madre che troppo gelato raffredda lo stomaco, ma lei, golosa, non si curava degli effetti collaterali se non quando si svegliava nel cuore della notte per i crampi e con uno strano sapore metallico sul palato.
Era giovane e la gioventù non si cura né dei dolori né delle nuvole grigie cariche di pioggia. Ne vide parecchie quella mattina affacciandosi alla finestra che dava sul giardino. Vide anche un grosso stormo di uccelli dividere in due il cielo e non seppe se leggerci un segno augurale o se quel volo improvviso fosse soltanto figlio di un rumore inatteso.
Abitavano in campagna da meno di un anno, un grosso sacrificio in termini di sonno e amici, quando stai fuori città e hai appena tredici anni sei prigioniero degli spazi liberi dei tuoi genitori o se sei fortunato e hai un nonno che non si è ancora beccato l’Alzheimer, puoi usarlo sporadicamente come autista.
“Finalmente liberi dalla babele condominiale, vuoi mettere?” Aveva esordito la madre per convincerli che era la scelta migliore. In realtà adesso correva più di prima ed era isterica alla terza.
Fa davvero bene il contatto con la natura? Me lo aveva chiesto con voce bassa alzando per un istante lo sguardo e offrendomi il nocciola liquido degli occhi. Poi era ripiombata nel ricordo.
Era scesa in cucina e aveva bevuto avidamente un bicchier d’acqua. La casa dormiva e il silenzio era denso come miele appiccicoso e scuro, Alena avrebbe provato questa sensazione per i giorni a venire senza sapere bene come descriverla.
L’acqua le diede i brividi. Raccontò di essere uscita perché non aveva più sonno e voleva vedere l’alba. Forse due passi avrebbero placato il brontolio dello stomaco, dove pareva sbattessero ali di farfalle di ferro. I mali dell’adolescenza, mal di pancia, mal di testa.
Riferì anche che in quelle ultime settimane pareva ne soffrissero tutti in famiglia ma che se lei si azzardava a parlare del proprio era zittita seccamente. “Tu che pensieri hai? Sei solo una ragazzina, pensa a studiare”.
Il padre più cupo e teso del solito, scuro come l’abito che indossava per recarsi al lavoro, spiegazzato in volto come quello. Ecco cosa le ricordava il padre: un giornale usato, letto e riletto, che qualcuno avrebbe finito per buttare via.
Era stato una sorpresa la sera prima quel gelato acquistato senza un motivo particolare.
Alena per un attimo ci aveva visto un barlume di normalità, ma lui non ne aveva preso neppure un cucchiaino per buona pace della ragazzina che invece aveva raddoppiato la propria dose.
Chissà dove erano finiti gli uccelli, le piaceva indovinare i disegni che facevano in cielo, piccoli come quelli della camicia da notte che indossava, l’aveva gettata via, il motivo le era rimasto impresso nella retina e anche quando chiudeva gli occhi, continuava a vedere coniglietti azzurri.
Nel giardino la madre coltivava fiori, a lei invece il giardino piaceva poco ordinato, le cose, venivano su. Adorava gli alberi, i rami che se ne fregavano delle direzioni e le provavano tutte, suo padre le aveva promesso un’amaca per quell’estate, avrebbe trovato posto tra due grandi alberi vicini. Leggere dondolandosi, che goduria.
Ma quel mattino notò che c’era qualcos’altro che dondolava e non era né un’amaca, né un’altalena. Il bicchiere le cadde giù di schianto come a chi non s’apre il paracadute dopo un lancio, l’acqua sulle caviglie.
Non gridò, corse che non lo capì neppure che già gli aveva afferrato le gambe, che l’odore delle scarpe di cuoio buono le risalì su per le narici, che le lacrime le strozzarono la gola e le inzupparono gli occhi.
Non si era neppure spogliato, aveva ancora indosso il suo abito sgualcito, pareva più largo del giorno precedente.
Raccontò che aveva visto farlo in televisione, dovevi sostenere il peso, non lasciare che il corpo penzolasse. Evitare che l’ossigeno non affluisse al cervello. Gli occhi non li avrebbe più scordati erano fissi su di lei vitrei, quasi fuori dalle orbite, era certa che non la vedessero neppure.
Le sue scarpe, ne parlò ripetutamente in seguito, i lacci ben stretti, morbide, costose, non poteva fare a meno di guardarle.
Le mani piccole e le braccia sapevano che ce la potevano fare. Lei no. Abbracciò le gambe e andò avanti e indietro per mantenere l’equilibrio per beffare la morte. La vista offuscata dalla fatica. Padre e figlia un immenso dolore oscillante, come le lancette di un orologio impazzito, il batacchio di una campana che stordisce. Alena gridò e fu quello che salvò suo padre, la madre tirata giù da quell’urlo li trovò abbracciati.  Lo salvarono insieme.
Le scarpe, i pantaloni tristi, dei grandi lividi sulle braccia oltre all’odore del cuoio, un’amaca che Alena non desiderò più, furono quelli i segni che lei non seppe leggere nel volo impazzito di un mattino di primavera.

Adele Musso