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mercoledì 26 novembre 2014

Poche cose in un borsone

Il pavimento era freddo, lo sentiva attraverso la guancia, freddo e duro, e odorava di polvere umida e di detersivo, aveva lavato il pavimento al mattino ma dopo aveva piovuto e al rientro lui si era portato sotto le scarpe di gomma un po’ della nebbia della strada e i marciapiedi delle merde dei cani, i cantieri dove era andato a cercare un lavoro e i bar dove aveva bevuto gin fino alla tacca centrale, poco oltre la soglia della dignità. Poi era tornato a casa.
Il pavimento era freddo, adesso lo sentiva anche attraverso la maglia e il collant, la gonna si era spostata verso l’alto ma lei non si mosse, non allungò il braccio per abbassarla, forse lo pensò, però come si pensa nei sogni, quando si vuole fare qualcosa senza invece avere la forza di muoversi di un millimetro.
E infatti non si mosse, chiuse gli occhi e decise di pensare a Venezia, da quanto tempo voleva andarci, dai tempi del viaggio d’istruzione che non aveva fatto perché lui era geloso e non aveva voluto lasciarla andare, che ti serve andare da sola a Venezia aveva detto, poi ci andiamo insieme, in fondo è la città degli innamorati, che ci vai a fare senza di me. Ma poi non ci erano mai andati, lui diceva che le gondole gli sembravano bare galleggianti, e poi lo sanno tutti che Venezia puzza di piscio di gatto, altro che città romantica, roba per turisti giapponesi, come dire per allocchi pieni di soldi, ci sono tante belle città in Italia, lo sanno tutti che Venezia è cara e poi estate e inverno c’è sempre un’umidità che non si respira. Molto meglio Roma. O Firenze.

Così non erano mai andati a Venezia, però nemmeno a Roma o a Firenze, non erano mai stati da nessuna parte, perché ci volevano troppi soldi per partire come si deve, e lui che lavorava un mese sì e due no non si poteva permettere una vacanza come si deve, non potevano mica andare a fare i barboni in giro per il mondo, o si viaggia comodi o meglio starsene a casa.
Invece lei pensava che avrebbe fatto anche l’autostop pur di andare a Venezia, che ci sarebbe andata anche a piedi, però quella volta che lo disse finì come finì, del resto avrebbe dovuto pensarci prima, era ovvio che insistendo lo avrebbe colpito nel suo amor proprio di uomo, era colpa sua, avrebbe dovuto pensarci prima.
Dall’altra stanza sentiva il respiro di lui diventare sempre più profondo e regolare, adesso russava. 
Chiuse gli occhi e cominciò a organizzare la sua partenza: poche cose in un borsone, anzi uno zainetto sarebbe bastato, non c’era nulla, pensava, che le servisse davvero portare con sé, pochi soldi in tasca, il necessario per comprare un biglietto del treno, un viaggio lungo e lento, un viaggio per assaporare l’attesa, per percepire l’allontanamento chilometro dopo chilometro, fermata dopo fermata.
Poi finalmente l’arrivo, finalmente avrebbe lasciato la terraferma alle sue spalle, avrebbe posato i piedi su uno di quei ponti che aveva visto solo in foto e in tv. Avrebbe trovato subito un lavoro, avrebbe fatto la commessa in un negozio di souvenir, si sarebbe adattata a dormire in un buco qualsiasi. E gli avrebbe telefonato, per dirgli che stava bene, che non si preoccupasse per lei, che però non sapeva quando sarebbe tornata a casa, presto, sì presto, il tempo di mettere da parte un po’ di soldi. Non gli avrebbe detto dov’era. Un giorno, una mattina, di domenica, con il sole e i turisti che vociavano e fotografavano intorno, avrebbe raggiunto Rialto, chissà se era davvero bello come in fotografia, sarebbe arrivata nel punto più alto del ponte, proprio in cima alla sua libertà, e avrebbe lasciato cadere il cellulare nella laguna, poi avrebbe cercato una panchina e avrebbe passato tutta una giornata lì, ad ascoltare l’assenza delle macchine, a sentire vibrare il selciato sotto i piedi, a guardare la luce giocare con l’acqua. Ad ascoltare l’acqua.

Il pavimento era sempre più freddo e adesso sembrava anche bagnato. Provò a muoversi, piano, sapeva come compiere caute ricognizioni per verificare che non ci fosse niente di rotto, che gli arti rispondessero. Solo allora capì che quel bagnato era sangue, dal labbro dal naso, chissà. Le costole le dolevano, la smorfia di dolore le rivelò un nuovo dolore, all’occhio sinistro. Raggiunse il bagno, rimase a lungo con la faccia sotto il rubinetto, l’acqua fredda dapprima faceva male poi anestetizzava. China com’era allungò un braccio verso il cassetto alle sue spalle, a tentoni cercò, trovò la cicatrene, il tubetto era quasi vuoto, doveva ricordarsi di comprarlo domani. Si riasciugò, fuori dalla finestra il cielo si era fatto scuro, dovevano essere le sette passate ed era tempo di darsi una mossa, c’era la cena da preparare e lei aveva dimenticato di scongelare la carne. Con gesti rapidi finì di medicarsi, avendo cura di evitare di incrociare il proprio sguardo nello specchio che aveva di fronte.
Patrizia Sardisco