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venerdì 30 gennaio 2015

La cabina

Ho impiegato molto tempo prima di imparare ad ascoltare e ad ascoltarmi, ma ci sono riuscito anche se del tutto casualmente e non proprio per merito mio.
Quell'anno mi sentivo sempre stanco, ancora prima che arrivasse il grande caldo. Ne avevo parlato anche con il medico che naturalmente aveva consigliato le solite cose, qualche esame, niente stress e niente sigarette. Il fatto che io non fumassi non aveva per lui alcuna importanza e quindi annuii senza più discutere. 

Non mi piaceva neanche la mia faccia che si allargava e si allungava sempre di più visto che perdevo i capelli. Colpa del fumo, senz'altro.
Mia moglie, dal canto suo, si limitava a comprarmi lozioni, sempre più costose e inutili, e a preparare mangiare macrobiotico, o era da coltura biologica? Non ricordo, come molte altre cose prima della consapevolezza.
Leggevo di un libro il primo capitolo per poi lasciarlo, prima di dormire. Camminavo sempre velocemente non alzando lo sguardo oltre il primo piano dei palazzi, ma evitavo accuratamente tutti gli escrementi che potessero macchiare le mie belle scarpe.
 Non mi accorgevo mai quando mia moglie cambiava colore ai capelli così, per evitare discussioni, sapendo, perché me l’ero appuntato, che andava dal parrucchiere ogni sabato, ogni fine settimana le facevo due o tre volte i complimenti per la bella tonalità che la ringiovaniva molto. 
E sia: respiravo male ma ci tenevo a non mancare in niente.
In una tarda mattina di metà giugno, avevo faticosamente completato i miei giri di rappresentanza e camminavo inseguendo  l’ombra lungo i muri dopo aver posteggiato qua o là senza cura, nell’assenza totale di controllo. 
 Non avvertivo  neanche più il peso di giacca e cravatta tanto che nudo o vestito, pensavo, avrei sentito lo stesso calore.
 Mi mancava il fiato per convincere i clienti dell’utilità dei software che vendevo, così fui io a farmi convincere presto della loro non necessità e ogni visita si concludeva con un caffé, freddo, e un invito al villino al mare. 
Già, il villino. Come li invidiavo per questo. Mi sarebbe tanto piaciuto avere un posticino tutto mio, tranquillo e fresco per la brezza del mare e non per l’aria condizionata, direttamente sulla spiaggia, magari in un’isola non troppo frequentata. Un angolo di pace, mio.
 Invece ogni anno, ad aprile, facevo due ore di coda per affittare una cabina striminzita che poi dovevo addobbare come una succursale di casa rivestendone le pareti di legno, piantando chiodi, posizionando mensole e specchi, tappando buchi indiscreti. 
Un viaggio si faceva sempre perchè poi diventasse argomento di discussione fra le signore nei cortili, sotto gli ombrelloni, quando bisognava aspettare che si completasse la digestione per farsi il bagno. Quell’anno mi ero dimenticato di confermare la prenotazione, semplicemente. Non avevo ancora avuto il coraggio di dirlo a lei. 
Quando realizzavo i suoi desideri era allegra e sorridente, mi sembrava quasi bella. Perfino la sua voce sulfurea si arrochiva sensuale per qualche momento.  Per questo l'avevo sempre accontentata. Anch’io avevo diritto ad un po’ di quiete. 
In realtà da tempo tentavo di convincerla  che, a mio giudizio, la cabina era il villino degli arricchiti. Ma niente da fare: niente cabina, niente chiacchiere con la moglie del dottore e dell'avvocato, niente esibizione di costumi ed amici nuovi. Se la conoscevo un po’, avrebbe accettato l'umiliazione di andare lo stesso al mare solo per potermelo rinfacciare a vita. Evviva. 
Con questi pensieri mi avviavo alla macchina.  
Per strada, mia  moglie di certo mi avrebbe bloccato con quattro parole: “Rovini le scarpe inglesi”.  Lei fa così,  le pesca in un attimo da qualche parte del suo cervello e te le versa addosso congelandoti. 
Pochi metri prima della macchina, quando già pregustavo il fresco del condizionatore,  calciai una lattina che sfuggì al controllo del mio piede. Le scarpe inglesi si vendicarono dell’uso improprio e poco consono alla loro dignità e al loro costo. La punta arrotondata aveva dato un effetto strano, di sicuro imprevisto da me. Guardai la scarpa. Si era graffiata.  
Arrivato a casa mi rinchiusi nello studio con la scusa del caldo e della stanchezza, neanche mangiai. Mia moglie mi lasciò stare per un pò rimanendo, per una volta, in silenzio a sbrigare la sue cose nelle altre stanze.
Per diversi giorni rimasi chiuso là dentro, uscendo solo raramente per bisogni fisiologici. Mia moglie pensava ad una crisi di andropausa indotta dal caldo, così mi disse entrando con un vassoio di insalata di pasta, il secondo giorno della mia reclusione, ma la mia occhiata fulminante la convinse a non chiedere ulteriori confronti. 
Nei giorni seguenti protestò ancora, voleva andare al mare, lei, così  pianse un poco, ma poi mi lasciò stare. Non si avvicinò più, aspettando che passasse la tempesta improvvisa, e le fui grato per questo. 
Guardavo i vicini palazzi antichi che mia moglie aveva sempre considerato poco più che rovine e mi rendevo conto  solo allora della fortuna che avevo a trovarmeli di fronte piuttosto dei moderni edifici del colore delle caramelle.
Le case antiche sono come corpi vivi perché ogni giorno si arricchiscono di una ruga nuova sia essa una crepa di assestamento dovuta ai movimenti terrestri o all’umidità. Ogni macchia, ogni alone varia la fisionomia del paesaggio, giorno dopo giorno,  ed io pensavo, con affettuosa curiosità,  a come sarebbero diventati quei palazzi dopo qualche anno sperando che non li ristrutturassero mai. 
Avevo deciso: niente cabina.
Era venuto il momento di affrontarla. Una sera uscii dallo studio ed entrai nella stanza da letto dove lei da giorni dormiva da sola. Lei lo registrò senza fare una piega, mi accorsi tuttavia della sua occhiata stupita e forse vagamente compiaciuta. Tutto rientrava nella normalità. Ci coricammo.
Nell'alone sfocato proiettato sul soffitto dall'abat-jour, quel punto nero poteva sembrare benissimo una macchia. Ma, inutile e pelosa, la mosca planò rapidamente su di me, togliendomi ogni illusione di un sonno tranquillo e rapido a venire che comunque non cercavo. Per le mie percezioni amplificate il ronzio della mosca equivaleva al rumore di un cacciabombardiere.
Ero pietrificato dall'irritazione, immobile, se si escludono gli schiaffi nell'aria, e, sadicamente, non volevo rimanere da solo in quello stato d'animo.
"Proteggono anche le mosche?", dissi alla figura avvolta nel lenzuolo accanto a me, indifferente a quel duello impari. 
"Chi?”
Da un oltretomba di sonno beato mi rispose, non subito, una voce roca da sibilla che, per una volta, formulava una domanda.
"Quelli del WWF".
"Penso di sì".
"Pure questa?".
" Che ne so". 
"Io la caccio e lei non se ne va. Perché non si spaventa?".
“Io dormo, tu fai come ti pare”.
Mi sentii subito meglio. Le permisi di riprendere i suoi sogni là dove era stata costretta ad interromperli.
“Ti ricordi quando andavamo al mare con la vespa? ". 
Valeria non colse, già dormiva. Mi addormentai.

Per la prima volta da anni non avevamo la cabina. 
Nella spiaggia attrezzata non c'era posto, eravamo arrivati tardi, pagammo ed entrammo nei cortili fra le cabine, ci aggirammo fra corpi di vario colore, sperduto io, nera non per abbronzatura lei, il viso sempre coperto da grandi occhiali scuri. Decidemmo alla fine di accontentarci di un quadratino di sabbia, buono appena per un telo, e sedemmo, in silenzio. 
Il sole scioglieva le scarpe di gomma, inacidiva gli arancini, rendeva pipì le birre dimenticate fuori delle borse termiche. Il caldo mi faceva uno strano effetto. Mi sembrava quasi di vedere i batteri del rancore fermentare nella testa di lei, e, come su un vetrino al microscopio, proliferare pensieri non compiuti, embrioni di sensazioni che geminavano prima ancora di chiarirsi, ma tutti poi si riunivano a formare un unico, lucido concetto: "Sei un cretino".
Cercai di rilassarmi e per un po’ ci riuscii, disteso in qualche modo a cuocere al sole mentre lei taceva, le ginocchia strette al seno, una molla pronta a scattare.
"Dai, Valeria, distenditi, ti abbronzerai a strisce, così rattrappita".
" Zitto. Non un fiato". Tempesta in arrivo, lo sentivo.
Ad un tratto una voce estranea si impose alla nostra attenzione.
"E' meglio che ve ne andiate".
 Non c'erano dubbi, parlava proprio a noi quella donna dai capelli striati di giallo. "E perché mai, signora?" e su quest'ultima parola calcai un filino più del necessario la voce.
"O ve ne andate o i bagnini vi faranno andare via, sono già venuti poco fa. Io lo dico per voi, per me potete anche stare". 
Mi girai, divertito,per commentare l’equivoco con mia moglie, ma di lei colsi solo un lembo del pareo subito inghiottito dagli ombrelloni. 
L’ ho rivista qualche tempo dopo, in tribunale. 
Ha cambiato colore dei capelli, adesso ha delle meches rossicce.

Marisa Vinci