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martedì 16 febbraio 2016

La grande scrittura di Rosa La Camera

Rosa è così, battagliera, impulsiva, sanguinaria con le parole. Non puoi fermarla.
Soprattutto onesta - usa solo parole necessarie e urgenti.
E' una vera intellettuale, le sue analisi - che siano letterarie o politiche o storiche - riservano sempre dei punti di vista illuminanti.
Rosa scrive benissimo, i suoi racconti sempre densi, sempre profondi, per dirla alla Virginia Woolf, lei scava tunnel dietro i personaggi.
Oggi di Rosa, rileggiamo una delle pagine più belle di Apertura A Strappo:

INCIDERE


I ragazzi camminano sul campetto sterrato dietro la scuola - tutti i ragazzi che abitano nel quartiere vanno a giocare in quel campo; Marco e suo fratello, Lucio e Ottavio, anche Livio ci va qualche volta; spesso solo per guardare gli altri che giocano -. Alcuni vanno avanti, fino al muro di cinta, poi abbandonano gli zaini e ridendo cominciano a correre lungo il perimetro del campo.
Due invece si fermano, restano indietro, parlano; un paio di volte si urtano, si strattonano. Il ragazzo dai capelli lunghi, biondi, appiccicosi come il vischio, vorrebbe potergli raccontare di lui, invece raccoglie una pietra di gesso bianca e comincia a segnare una linea verticale davanti ai pali che segnano la porta. L’altro raccoglie il pallone abbandonato e glielo lancia; lui smette di segnare il suo rettangolo e si lancia in avanti per riceverlo, barcolla; fissa per un breve attimo l’altro, poi rilancia il pallone, lo riceve e lo rilancia ancora. Una linea nell’aria, una nella sua testa.
Lui vorrebbe strappargli quel sorriso sardonico dalle labbra, avrebbe voglia di cacciagli giù nello stomaco ogni singola parola; velenose; “ tua madre, serva…”. Ha sentito solo quelle. Si sono fermate nelle orecchie, nella gola, e negli occhi, insieme al viso di sua madre spettinata e pallida come ogni mattina, quando entra nella sua stanza e gli bisbiglia nell’orecchio che sta andando - quel lavoro la uccide. E mai nessuno l’avrebbe trattata con rispetto, anche adesso che hanno una casa; ancora li chiamano zingari.
Dopo alcuni rimandi, duri – i colpi rimbombano nell’aria - , lui riceve il pallone e subito lo atterra; lo conficca sul terreno con forza sollevando una nube di terra rosa, lo trattiene con un piede. L’altro lo incita, urla: “tira!”. “Tira”, ripete. Ma lui lo fissa e non si smuove, anzi schiaccia il pallone più forte, tenta di salirci sopra, ride e lo fissa. Vuole pareggiare la partita. Ora anche gli altri ragazzi smettono di correre, si fermano a guardare. Lui fa uno scatto – i capelli si sollevano, frustano l’aria - e raggiunge l’altro; si lancia su di lui; restano in bilico, stretti l’uno contro l’altro. Lui non gli dà tregua, lo colpisce alla spalla e alla faccia, più volte. L’altro recupera l’equilibrio e afferra la sua maglia, lo getta a terra; e lui nella terra vorrebbe restarci. L’altro allunga la mano e raggiunge la sua faccia livida, le labbra serrate - si colorano -, le dita si immergono nella pelle tesa e sudata, il collo si gonfia, ingoia sangue e rabbia.