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sabato 8 novembre 2014

AAS Vintage: Merde d'artisti

Il giorno in cui sono nato mi sentivo strano, la gente mi guardava con la faccia da ebete. Io non capivo. Ad un certo punto venne un tizio con una mascherina e mi diede una sberla sulla chiappa destra.
Ricordo, mi fa ancora male, come fosse successo ieri. 
Mi dicevano che ero un’opera d’arte. Ora ho 30 anni. Ho capito cosa intendevano quando mi dicevano che ero un’opera d’arte. 
Si riferivano all’opera di Piero Manzoni, “Merda d’artista”. Nel 1961 questo gran talento mise trenta grammi delle sue feci in novanta barattoli con tanto di descrizione. 

Oggi ne sono la dimostrazione che sono l’opera del signor Manzoni in persona.
In tutti questi anni ho fatto di me e per me l’inutile, l’unica cosa che sono riuscito a fare è diventare un musicista di fama con infamia. Scrivo testi banali, ma chi se ne frega. I miei fans sono tutti uguali a me, con quest’aria da intellettuali e gli occhialoni con la montatura grossa. Sembra andare forte questa roba.
Tutti pensano sia musica nuova e originale. Non hanno capito che sono tutte cose rubate dagli anni sessanta. Sai com’è, prendi un pezzo di Tenco, lo misceli ad un riff di Battisti con la voce di Rino Gaetano ed ecco qui. Sei un nuovo cantante. 
Per i testi non mi preoccupo, miscelo un po’ di parole a caso usando qualche parola aulica. Fesserie, tutte fesserie. In realtà i miei testi non dicono niente, ma a loro, ai miei fans va bene. Quando qualcuno mi critica perché conosce la verità che c’è dietro di me, loro sono lì a contrattaccare. 
Mi ritengo fortunato, ah beh, in fondo sono un “Merda d’artista".

Dario Ferrante


La porta del bunker, così lo chiamavamo, era chiusa da un lucchetto. Lo spazio era veramente meschino, in tre si era già in tanti nonostante tutti gli sforzi fatti per sistemarlo alla meglio. Ce lo facevamo bastare. Riuscivo persino a saltare nel momento in cui l’orgasmo (perché di quello si tratta, è inutile girarci attorno) scoppiava dall’amplificatore o dalla cassa armonica. Stipati come peli nel nostro piccolo, umile, schifoso, vitale buco di culo in cui facciamo sogni di gloria e facce degne della miglior cagata.

Al centro potevamo trovare un trapano a colonna, un tavolo DIY1 composto da quattro piedi di ferro e una tavola di legno grande abbastanza da farci una spaghettata. A sinistra si trovava il box per la registrazione delle voci, insonorizzato manualmente dal caro C, qualche sedia, le mie chitarre, la mia armonica, vari ammennicoli per chitarra e i bassi di C. A destra uno sgabello/contenitore, una batteria fatta di secchi per la mondezza, un cembalo, un tavolo da meccanico, viti, punte per trapano, ragni, forse dell’amianto, polvere, una scopa. Eppure era casa.

«E allora, come ci combiniamo stasera?» chiedo tenendo in mano il pacco di corde. Roy risponde che non potevamo vederci poiché l’esame di Nonsocosa Applicata era alle porte, quindi gli toccava studiare per bene i tre libri e blablabla. «E ci credo che hai il fumo in culo, ti riduci sempre negli ultimi tre giorni a sfinirti, coglione! Batti un colpo quando sei libero, non fare come al solito. Sì, ok, no, tranquillo. Tua madre» rispondo ridendo.

Sfilo il mi cantino dalla confezione e lo stiro per bene, prendo il lubrificante e lucido la corda. Tasto con le dita prima di inserirlo nella fessura corretta, poi la lego al foro della meccanica. Tiro con forza e giro la chiave più volte per tenderla; non è ancora il momento di accordare, ne ho ancora altre cinque e tutte quante nuove, luccicanti e da tendere. «Come stiamo in cassa?» domando a C, che risponde prontamente: «Venti e sessanta, venti e sessanta e due plettri». Sbuffo una risata e chiedo se ha notizie di S, lui prende il telefono e dopo aver verificato fa di no con la testa. «Ma non sarebbe bello un concerto?». Le nostre facce rispondono senza aprir bocca; che domanda inutile.

«Ci serve uno Shure SM572 e costa cento euro e qualcosa» dico a C, in auto. La sua faccia era sintonizzata sull’espressione occazzondolitrovo «Dobbiamo, fratello, dobbiamo, altrimenti le registrazioni verranno di merda e, ok, non siamo sto granché, ma spendo tanti soldi per sigarette, libri, mille cose e boh, eviterò di fumare». Ci dirigiamo verso Davidoff, in via Catania, entriamo e gli occhi cominciano a brillare. Non abbiamo idea alcuna di cosa far prima, quindi giriamo il negozio indicando e dicendo sempre la stessa cosa: «Quanto costa? Mmh, no, vabbè, vediamo...magari un altro giorno». Si avvicina il commesso e ci chiede se può esserci d’aiuto. Aveva davvero una faccia da culo, una di quelle alla quale potresti spiegare seriamente cosa ti serve e cosa vuoi fare, ma potresti anche dargli del figlio di puttana e lui risponderebbe comunque con un cenno del capo che a tradurlo verrebbe fuori lo screensaver della banana che canta “It’s butterjelly time!”. «A noi servirebbe uno Shure SM57 per registrare da amplificatore, abbiamo una band e volevamo produrci da soli. Ci è stato consigliato da chi ne capisce, insomma, ecco» disse C alla banana. Fa di sì con la testa, poi ci chiede se abbiamo già in mente come registrare la batteria e ci propone di un cofanetto Shure per una cifra che superava i cento euro. Io e C, visibilmente scossi da tutta sta baraonda, plasmati dal senso di vomito e dal nauseante ‘non ce la faremo mai’, guardiamo il banano. Lui ride. Io rido. C ride. Chiedo lo Shure, pago e andiamo via.

***

Stamattina guardo l’oroscopo di Rob Brezsny su Internazionale e leggo che ho combattuto delle battaglie degne del Terzo Reich negli ultimi dieci mesi, poi mi chiedo chi non abbia combattuto delle battaglie negli ultimi dieci anni e mi sento molto più allegro. Dice che il mio rapporto con le suddette sta cambiando, che devo cambiare strategia altrimenti rischio una caduta gigantesca. La mia allegria scade un po’ quando ripenso al bunker e alle aspettative, la famosa svolta, i sogni di gloria. Ma gloria di che?! Che sogni?! Sai fare una cosa nella vita e questa ti va in culo perché non c’è spazio, non c’è la volontà di accettarsi a vicenda. “Maledetto io, che adoro tutte ste cose difficoltose” penso, e un po’ di cenere cade sul tavolo. Chiudo Internazionale, sfanculo Brezsny con le sue pillole di qualunquismo e torno scrivere la scaletta da proporre agli altri sperando di scrivere una scaletta nuova con dei brani che non siano quasi tutti degli altri. Magari un paio di scarpe per affrontare il viaggio, mica tanto...delle scarpe o degli stivali per camminare in mezzo a tutta questa merda.



Antonio Siddiolo



La Merda d'artista

Il 12 agosto 1961, in occasione di una mostra alla Galleria Pescetto di Albisola Marina, Piero Manzoni presenta per la prima volta in pubblico le scatolette di Merda d’artista ("contenuto netto gr.30, conservata al naturale, prodotta ed inscatolata nel maggio 1961"). Il prezzo fissato dall’artista per le 90 scatolette (rigorosamente numerate) corrispondeva al valore corrente dell’oro.

Le scatolette di Manzoni hanno numerosi precedenti nell’arte del Novecento, dall’orinatoio di Duchamp ("Fontaine", 1917) alle coprolalie surrealiste. Salvador Dalì, Georges Bataille, e prima di tutti Alfred Jarry con "Ubu Roi" (1896), avevano dato dignità letteraria alla parola "merde". L’associazione tra analità e opera d’arte (e tra oro e feci) è poi un tema ricorrente della letteratura psicanalitica che Manzoni può avere recepito attraverso la lettura di Jung.
La novità di Piero Manzoni è avere collegato queste suggestioni ad una riflessione sul ruolo dell’artista di fronte all’autoreferenzialità dell’opera d’arte.


 (www.pieromanzoni.org)