Ogni cosa ha un’origine. Scaturisce da altro. E cos’è che mi spinge a interrogarmi sulla condivisione mica lo so bene. O forse lo so. ‘Sta pochezza di sentimenti. La singletudine, spauracchio o velleità. Boh, che dire? E mi ripeto: cos’è oggi condivisione? È Facebook. O quanto meno è anche Facebook, che ci dà uno spazio da condividere e dove condividere. È così, no? E allora l’ho scritto. Il mio numero di cellulare. Solo quello. Nel mio profilo.
Una provocazione, né più né meno. E, del resto, se chiedi di fare qualcosa, o spieghi le ragioni perché vuoi proprio quella cosa, piuttosto, non la ottieni. Se mantieni il riserbo…
Nessuno che abbia aderito con un mi piace, una faccina di qualunque espressione umana stilizzata. Qualche commento sì. Per esempio: che vuoi dire? E io non gliel’ho detto. Che sennò la strategia non è più una strategia.
Tutto per quella discussione odiosa. Dove viene fuori il pregiudizio dei maschi. Per non parlare del retropensiero delle femmine. E, infatti, è proprio così e non si salva nessuno, né gli etero né gli omo. È il DNA che è fottuto in partenza. Per farla breve. Per tanti – e sono molti – FB è un modo per cercare compagnia. Non solo per condividere. Insomma, funziona e ci scappa pure la storia d’amore. Per quei tanti di cui sopra, è solo un modo per acchiappare. Mi oppongo risoluta. Sono in netta minoranza. No, non sola contro tutti. Qualcuno che mi spalleggia c’è. Fievoli voci a difendere un sincero interesse a partecipare passioni, curiosità, notizie. O a riprendere vecchie relazioni senza scombussolare l’equilibrio vitale.
E poi me ne dimentico. Non proprio. Decido di non pensarci più.
Vado al mare. Attivo il tono silenzioso che non voglio disturbare i bagnanti assopiti al sole qualora si dovesse scatenare l’inferno di chiamate.
M’immergo in quello squarcio cristallino verde/azzurro. Nuoto e penso. Penso e continuo a nuotare. La mente fresca accarezzata dall’acqua. Gli schizzi scivolano sulle lenti degli occhialini. Scorgo pesci che si scostano come a darmi la precedenza. Affondo il palmo e prendo fiato; ruoto la testa e affondo l’altro palmo in un ritmo quieto mentre mi chiedo perché mai attribuire intenzioni agli altri sia un’occupazione più diffusa che metterle in atto le intenzioni. Le proprie.
Quando nuoto mi muovo in linea parallela alla riva. Temo il rischio di finire sotto l’elica di una barca e mi mantengo entro la distanza il cui accesso è impedito alla navigazione. E però la precauzione mi garantisce dal non morire, ma non anche dall’inquinamento acustico causato dalle moto d’acqua. Barbari mezzi ludici per rozzi individui. Ma, al di là degli inevitabili giudizi, ci sono e ce le dobbiamo sopportare. E ne arriva una. Stride e romba che mi dà ai nervi. E spartire in tal modo una natura meravigliosa che amo, oltre che irritarmi, mi ripugna. E allora ripenso a Facebook. Là non senti il mormorio fastidioso, puoi leggere come no. Là la condivisione è più rispettosa delle diversità.
Chissà se qualcuno lo userà il mio numero. E chi. Chissà se non mi resta che dare ragione alla massa che asserisce un’unicità di scopo: conoscenze a fini sessuali, fors’anche sentimentali, ma solo in secondo ordine.
Credo che l’ho azzeccata a cambiare l’immagine. Tolta la faccia, ho messo una foto dove il viso è tagliato via, in primo piano un paio di gambe accavallate. Non le mie. Che non sono adeguate allo scopo. Ma un paio di cosce tornite e sode con annessi piedi sottili e caviglie lunghe e ginocchia ossute. Stringhe tempestate di finti smeraldi e zaffiri come il mare nel quale nuoto e un tacco dodici che invita a pensieri raffinati. Mi sconquasso dal ridere per quanto non mi somiglia quell’immagine. Ma quando è guerra, è guerra per tutti e allora mi butto nell’orgia virtuale. E senza ridere che sennò bevo e a mare non è una buona idea.
Sbircio nella sacca e il display lampeggia bofonchiando silenzioso. Numero privato. Asciugo un orecchio frettolosamente:
«Sì?» e certo non mi sarei mai aspettata né quella voce né, tanto meno, quella risposta:
«Lo sai come sono?»
E che gli dico a ‘sto cafone e idiota? E in modo altrettanto idiota gli rispondo che provo a immaginarlo. Ho proprio l’impressione che quel che dice prescinda dalle mie parole. Di cui non tiene conto. M’informa che è nudo e che ce l’ha in mano. Non ho nemmeno il tempo di pensarla una risposta che già ansima e conclude, non so quanto gloriosamente – per lui, solo per lui –.
Ci sono altre due chiamate senza risposta. Numeri che non conosco e non richiamo. Mi stendo un po’, delusa. Mi dispiace darla vinta alla maggioranza. Non posso arrendermi subito. Mi rendo conto, però, che se dovesse continuare così sarò costretta a cambiare numero. Non ci avevo riflettuto. E vabbè, fa parte del mio essere irruente. E però, se le telefonate continuano a essere di questo tipo, chiudo. Riattivo il sonoro e mi accingo all’attesa. Che è anche una sfida.
Non ho nemmeno il tempo di sdraiarmi che squilla: mia sorella.
«Come ti salta in mente di mettere il numero su Facebook? Un’altra delle tue?»
Di quali mie parli non lo so affatto. Ma se per me è inutile chiederle delucidazioni, a lei la vaghezza torna utile per rincarare la dose.
«Un esperimento», dico, e maledico di non aver impedito l’accesso al profilo a tutti i familiari che con le loro ansie non fanno che opprimermi. Che è come dire che mi triturano il cervello o quel che non posseggo, che madre natura mi ha fatto femmina. Riesco a non litigare e finisce lì. Con l’impegno che le spiegherò. Dopo.
Un altro numero che non conosco. Prefisso straniero che non conosco.
«Allò?»
«Ciao. Vengo in Sicilia. Voglio conoscerti.»
«Da dove chiami?»
«Istanbul»
«Ciao, grazie per la chiamata, ma sono una siciliana che non vive in Sicilia.»
Per questa resto in dubbio. Difficile catalogarla. Mi creo l’alibi perché non ho la prova che si tratti di un approccio sessuale. Cos’altro potrebbe essere. Non posso indagare e la cestino fra quelle neutre.
“No, così non va… Io cerco un uomo che mi dia l’eternità…”
Il ritornello della Vanoni riecheggia nelle mie orecchie. Quasi a cercare spiegazioni. O a darle, piuttosto.
Superfluo dire che continuo a ricevere telefonate che sono richieste di incontri, d’appuntamenti telefonici:
«Ti posso chiamare stasera?» La voce femminile appartiene a tale Gisa. Non avrei mai pensato di ricevere telefonate o sms da sconosciuti e sconosciute. Nel senso che li sconosco pure su Facebook. Chissà come sono venuti in contatto con il mio post. Non chiedo. Capisco ancor più che Facebook è una macchina infernale di comunicazione e relazioni on-line. E dire che avevo pensato di avere sbagliato il metodo. Nel senso che avrei dovuto creare l’evento. Ma sarebbe stato troppo sfacciato e troppo esteso a chicchessia. Per questo non l’ho fatto. E meno male! Come avrei potuto gestirlo non oso immaginarlo.
«Perché non parliamo ora, piuttosto?»
«Perché non parliamo ora, piuttosto?»
E allora mi spiega che sta telefonando dalla sua postazione di lavoro. Che non può lasciarsi andare a cose più intime – e calca le parole, quasi le sillaba – e conclude con un: «Mi capisci, no?»
Vabbè, rimandiamo a più tardi. Anche se non sono interessata alle donne. Quanto meno sessualmente. E allora perché accettare ‘sto rinvio? Nel giro di trenta secondi rifletto che, in tal modo, secondo questi criteri, non sono interessata nemmeno al genere maschile. E allora perché dirglielo? Perché discriminare?
Mi telefonano due ragazzi. Insieme. Si spacciano per uomini in cerca d’avventure.
«Ciao, pupa. Siamo in due. Ci stai?»
«Che fretta!»
«Andiamo al sodo noi. Non abbiamo tempo da perdere.»
Vorrei dir loro, il cui timbro di voce così incerto e cavernoso è inequivocabilmente fanciullesco, o preadolescenziale, piuttosto, che la pedofilia è una cosa orribile. Che non mi riguarda. Ma a che serve?
«Chi vi dice che cerco avventure?»
Una risata corale interrompe la comunicazione e un apparecchio afono stronca le mie aspettative.
La sera mi ritrovo nello stesso cortile interno, allo stesso minuscolo tavolo, forse anche sulla stessa seggiola che traballa sulla ghiaia che ricopre il terreno dello stesso circolo Arci nel quale si era svolta la discussione che mi era risultata odiosa. La fetta di umanità che frequenta il posto è quasi interamente al femminile. Più omo che etero e sicuramente intellettualmente vivace. Non solo intellettualmente, per la verità.
Il cellulare è sempre nella mia sacca. Vorrei spegnerlo ché mi ha deluso. Non sono abituata a tirarmi indietro e lo lascio acceso. Cerco giustificazioni alla sconfitta. Ne trovo una che mi consola tanto è calzante, veritiera. Perché perfetti estranei, a me sconosciuti, dovrebbero usare un numero lasciato su un profilo, il mio, se hanno – come me – soltanto l’interesse di usare uno spazio comune, uno strumento? Per dirmelo?
Tanto ovvio che no; ma avrei dovuto pensarci prima.
E mentre affogo lo scorno nel mio unico calice quotidiano, il famigerato strumento squilla ancora una volta.
Vedo un numero che non conosco. Delle due, l’una: o qualcuno che non teme la riconoscibilità – quasi tutte le chiamate provenivano da numeri privati – o che ha sbagliato:
«Buonasera, signorina.»
«Chi parla?»
«Ohhh non ci conosciamo. Ma lei mette il suo numero e, allora, se telefonando…»
Una vocina un po’ roca, debole, vibrante.
«Beh?»
«Forse lei cerca qualcosa di diverso da me. Potrei essere sua zia, o forse sua nonna.»
E finalmente spero: «Ti ascolto, come ti chiami? Possiamo darci del tu? A una zia le darei del tu…»
«Mi chiamo Irene. E non ho nessuno con cui parlare…»
«Ho una zia Irene in carne e ossa, giustappunto …» e nella mia testa penso che è un nome per donne cazzute, emancipate, come la zia e quest’altra. E sono strafelice. Anche se questa dovesse rimanere l’unica telefonata fuori dal protocollo che regola il cerimoniale on-line a scopi sessuali. Così è che mi pare.
«Le posso raccontare una storia?»
E mi dice di quando era ragazzina. Della guerra e della fame. Dell’amore. Della vita. Dei figli mancati. Degli amici morti. Di una parente, in vita ma inesistente. Che, pur sola, si sente ricca delle emozioni ed esperienze vissute. E ancor più ricca perché le ha raccolte – come in un salvadanaio – nella memoria. Epperò quella morirà con lei. Ed ecco, un’idea: è arrivato il tempo di romperlo quel salvadanaio, di trasferirli i ricordi. Su di un quaderno. Vuole che qualcuno li legga. Vuole pubblicarli su Facebook.
«Vorrei che almeno tu li leggessi … Posso sapere come ti chiami?»
«Fiorella» e sento che la mia voce somiglia a quella di Irene per quanto esce tremula e sicura.
«Oh bene, cara Fiorella, non potevi avere nome più dolce. Quel che desidero, oggi che non aspiro più a niente, è che, sepolta io, ci sia almeno un’altra persona che sappia che sono esistita. Che ho fatto parte di questa umanità. Che ho fatto, anche poco, ma quel di cui sono stata capace.»
Così intensa e umana l’esigenza di Irene. Non m’importa più della delusione per una sfida persa già in partenza. E allora me la strappa la promessa. Senza lacerazioni, che invece m’incuriosisce:
«Certamente. Posso chiederti perché?»
«Non credo nell’aldilà. Credo, però, nella memoria di chi rimane. Nella continuità. E vorrei un po’ di memoria anche per me. Quella sì. E allora m’è venuta un’idea. E se telefonando…»
Antonella Bartoli