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martedì 7 ottobre 2014

Fofò si porta i guai

Baffo impolverato, capello spento e occhio strabico. Portava un paio di occhiali da vista anni settanta, autentici, cioè risalenti all’epoca e aveva sempre avuto abiti imbrattati da gesso e da colore.

Inseparabile dal suo vecchio borsello, tanto pieno di carte da fargli pendere la spalla mezzo palmo, era inscindibile, soprattutto, dal suo contenuto: cedolini Findomestic e bollette da pagare (prima o poi). 

Fofò, al secolo Ferdinando Mezzalira era quello che si dice un personaggio e come tale aveva i suoi fans e i suoi denigratori. 
Per questi ultimi era uno scorbutico. 
Già, scorbutico. E chi non lo è se ti rubano la vespa per tre volte, ti danno una busta paga con lo stipendio che arriva alla metà di quello c’è scritto e ti chiami pure Mezzalira? 
I fan, invece, l’apprezzavano per il suo frasario. Inventava versi e filastrocche a danno di nemici. Specialista in epitaffi per gente viva che avrebbe preferito morta. Ce l’aveva sempre con qualcuno del lavoro. Con il capocantiere, l’ingegnere, il geometra, il ragioniere… E si pisciavano addosso dalle risate i colleghi di quacina. 
Si pisciavano addosso anche gli avventori del bar, dove passava tutti i giorni prima di tornare a casa. 
Lì faceva il cabaret. 
«Con chi ce l’hai oggi, Fofò?» Chiedevano gli amici, e Fofò senza manco una bestemmia, sbatteva il borsello sopra un tavolino, e cominciava. 
Un elenco fitto fitto. Catilinarie che non di rado finivano con una bella rima. Tutto in italiano, correttissimo, che c’era quasi da “gioire” per le quelle azzeccatissime invettive. 
Pochi anni dai preti, gli erano valsi quel tanto d’italiano. 
Sarebbe stato un poeta, Fofò, se la vita, invece di cazzuola e cardarella, gli avesse messo in mano carta e penna, avrebbe avuto fantasia perfino a scrivere romanzi, con tutto quello che gli capitava. 
Passare dal bar e sfogarsi un po’, gli faceva affrontare meglio la serata. Tornare ogni giorno a casa dove si discuteva sempre e non si rideva mai era una bella sofferenza. Perché, si sa, se i soldi sono pochi non viene da ridere a nessuno. E la questione era sempre quella. 
Pochi soldi partoriscono debiti e i debiti sono padri dei guai e i guai sono golosi di figli. Figli di poveri disgraziati come Fofò. 
Così un bel giorno, proprio gli unici due che aveva, erano finiti: uno in carcere e l’altro in una casa di correzione. Il primo maggiorenne (da cinque giorni appena) e l’altro no. Fregati da un furtarello andato male. Il primo e l’ultimo. Pagato con gli interessi pretesi dallo stato, con il solito tasso: sproporzionato e senza fondamento. 
Avrebbe fatto meglio e prima Fofò con qualche scappellotto che non la giustizia “santa e benedetta”. Perché lui, Fofò, lo aveva capito che quei due bambini ci avevano provato una martedì mattina, quando gli incassi ancora erano niente. Volevano rubare poco, ma come si poteva spiegare questo al commissario? 
Si ci mise pure il loro avvocato difensore che, con valente inettitudine, trasformò il tentativo di furto al supermercato in “rapina a mano armata”, incasinando per sempre i due ragazzi. 
Le pistole ad acqua, Dio sa come, passarono per Kalashnikov. 
Le liti in casa che scattavano sempre per la frase, “soldi non ce n’è” (mandando in bestia i due giovani ancora senza lavoro e manco cellulare), passarono per disagi psicologici dell’intero nucleo familiare. 
I vicini furono considerati testimoni oculari. 
Ma di che? 
Fofò non avrebbe mai saputo spiegarselo. Non s’era nemmeno accorto che le discussioni fatte a voce alta, così alta, come si faceva in casa loro, sarebbero state trascritte e messe agli atti come: continui litigi e pesanti minacce. Non se lo immaginava che il rumore delle loro discussioni disturbava la quiete pubblica. Né che la gente, che se ne stava fuori, avrebbe giurato di aver visto sedie per aria e tanti piatti rotti. 
Come si poteva spiegare a quei vicini che i Mezzalira non sapevano discutere a mezza-voce? 
Ai figli vennero imputati altri due reati e addio condizionale. 
Così, al bar, il repertorio di Fofò cambiò, e se prima ce l’aveva con l’intera gerarchia del cantiere, adesso ce l’aveva con la giustizia, gli avvocati, la burocrazia, i preti e pure i santi. 
Padre Pio, da vent’anni sopra il comodino, precipitò dentro l’ultimo cassetto. 
C’è chi si porta l’abito migliore, le scarpe nuove e il volto sereno di un vero Cherubino. C’è chi nudo viene e nudo se ne torna al Padre. 
Lui decise di portarsi le sue contrarietà. Ce l’aveva ancora la parlata da poeta perché, se la parola ad arte ti scorre nelle vene, non te la toglie nemmeno il camposanto. 
E sulla sua lapide Fofò ci volle scritto: Visitato dai guai perennemente, gli si piantarono in casa meglio dei parenti. Dio allarghi le porte e pure il paradiso che a tutti quanti glielo porto lì.


Adelaide J. Pellitteri