Magliette, pantaloni, tappeti da
cucina, tende, borse, plaid, portarotoli all’uncinetto. Sventolano sulla mia
testa e per schivarli inciampo sulle cassette di frutta.
Sono al mercatino settimanale. Non
l’ho potuto evitare.
Mi hai telefonato poco fa, mi convochi
per il tardo pomeriggio, io ti dico di sì, non sono né contenta né triste. Non
ti vedo da quindici giorni, o venti? non ricordo. Ho avuto altro da fare.
Il cielo è pesante alla fine
dell’autunno. Meglio così. Pioverà e finirà questo caldo fuori stagione. E poi
improvvisamente farà inverno e di nuovo a natale si festeggerà con il sole.
Ho finito prima di lavorare e ho
pensato al vuoto di ore da riempire in qualche modo. Non c’era niente di meglio
del mercatino. Ora passeggio per quanto mi è consentito dal flusso disordinato
di donne dai fianchi morbidi e ondeggianti, le donne rotonde del mio quartiere
inconsapevoli della loro mole. Schizzano da una parte e all’altra investendoti e
calpestandoti con le rotelle dei carrelli della spesa, intente a parlare
all’orecchio della comare. Due donne che sparlano diventano subito sorelle di sangue. A
tutti i livelli.
Le bancarelle sono tante e portano di tutto appeso ai bordi degli ombrelloni
parapioggia o parasole e su tutto io vado a sbattere. Sono cose che non hanno
vita lunga, dalla provenienza dubbia, che ricordano approssimativamente le
ultime tendenze degli stilisti, quelli veri, in tessuti più fragili, con
cuciture meno resistenti, con colori appena più scuri o più chiari dei pezzi
più famosi delle sfilate. Cose di una stagione, di uno o due mesi, cose che non
durano, di poco prezzo e tanto valore per chi non può permettersene altre.
Sono le imitazioni. I falsi. I quasi veri.
L’ultima volta che ti ho visto hai
preso delle caramelle da un cestino della cucina, avevi già la valigia
nell’ingresso, non me ne hai offerta una. Ero lì per salutarti, così si fa.
Non sapevo a che ora partivi, non ti ho
chiesto se volevi essere accompagnato all’aeroporto. Non sapevo bene cosa
dirti. E tu non mi hai detto le solite frasi che si dicono come “Ti chiamerò”.
E perché avresti dovuto chiamarmi? Non
sai che fartene della mia voce. Io non so che farmene di te. Sono stata
contenta della tua partenza. Negli ultimi tempi non sapevo che dirti, non
sapevo perché fare l’amore.
I capi sgargianti fraintendono le
indicazioni degli stilisti, ne riprendono amplificandolo, stravolgendolo, un
solo particolare che mi colpisce. Sulle bancarelle vedo scarpe dalle punte
sparate, punte che si protendono troppo
verso di me. Le taglierei quelle punte, ho bisogno di accorciare, ho
bisogno di brevità, di tempi rapidi e puntiformi. Ho bisogno di leggerezza. Se
non fosse per i colori, mi andrebbero benissimo questi vestiti esagerati nella
loro pochezza perché fatti di stoffa sottile. E la frutta di stagione e il
pesce subito marcio. Dura troppo quest’attesa, questa agonia, la perdita di
senso. Appendo alle bancarelle i miei
desideri, i miei dubbi perché uno strappo di vento se li porti con nessuno che
li insegua. E le indecisioni e gli errori e la vigliaccheria di dirti non ti
voglio più perché mi annoi. E gli alibi del non dire niente perché non ti devo
cambiare io, magari m’interessassi tanto da darmi la voglia di combattere per
te per creare un noi che ci fa paura. Dove sono i dialoghi nella nostra storia?
Cosa ci siamo mai scambiati? Non riesci a darmi neanche una caramella.
Il mercatino è il regno del rapido,
del cambiamento, del tempo inutile che non lascia traccia. Il tempio della
nostra storia quasi vera.
Facciamo che adesso succede qualcosa,
facciamo che siamo coinvolti in una rapina in banca e io e te ci stringiamo
forte, io leggermente indietro, tu un braccio intorno alla vita pronto a dare
la tua per proteggermi e magari pensando ad un piano di salvezza per tutti.
Facciamo che tu sei Rhett Butler e io Rossella O’Hara e mi hai amato e ti sei
stufato dei miei capricci. Facciamo i fidanzatini di Peynet, facciamo marito e
moglie che indovinano la cose da dirsi e fanno sacrifici per i figli, facciamo
che, nei film o non, i nostri sentimenti quelli sì sono veri e durano e ridiamo
e piangiamo e ci graffiamo il cuore di sofferenza e di gioia.
Facciamo quelli veri. Una volta sola.
Marisa Vinci