Se d’estate ovunque c’è caldo, in Sicilia non si può stare.
E noi eravamo seduti sotto
l’albero di fichi neri grossi quanto una bomba a mano, che tali sono pure
quando cadono sfracellandosi in una pappetta rossastra e appiccicosa. E pure
pruriginosa che ti mangia la carne.
Noi eravamo io, mio fratello di
dieci anni che è come la rogna dei cani,
e lo zio Turi.
Io e mio zio distesi sulla
coperta che aveva grattato mio cugino tornando dal servizio militare, mio
fratello arrampicato sui rami alla ricerca del fico più grosso e maturo.
Ovviamente c’erano le cicale a
torrefarci le orecchie che pure che gli tiri una pietra, le disgraziate si
stanno zitte cinque secondi e poi ricominciano ancora più stizzose.
Stavamo in silenzio con il sudore
che ci colava dalla fronte sugli occhi, cercando di afferrare un poco di
venticello che poi manco c’era.
Mi arriva dritto dritto sul piede
il frutto più maturo e spappoloso dell’intero albero. Salto in aria.
Testa di minchia, urlo a mio
fratello, non te ne puoi andare da qualche altra parte?
Tse tse, sento dalla bocca di mio
zio, mi giro e lo guardo muovere la testa a destra e sinistra in grave segno di
disapprovazione.
Perché, gli dico, che gli ho detto?
Intanto lavati il piede con
quest’acqua, mi interrompe, e continuando, risiediti e mi ascolti.
Hai fatto uso improprio della
parola più bella della nostra lingua.
L’hai resa vastasa.
Perché quella che hai detto, non
si riferisce a quella cosa che sta all’ombra e che non si può dire soprattutto
alla presenza delle femmine che se no diventano rosse come se non l’avessero
vista mai. O per lo meno, c’è chi ha travisato questa bella parola svuotandola
di tutta la sua poesia per farla diventare un insulto e tu, che non sai quello
che dici, ti sei mosso in questa
direzione.
Zio, gli dico io, ma che è il
caldo?
Zitto che tu sei piccolo e non
capisci niente, ma io sono qua per spiegarti.
Metti che tu sei a tavola, stai
morendo di fame, sulla tavola non c’è niente tranne le posate e i piatti vuoti
che te li rosicheresti così per come sono, affaccio io dalla cucina e ti dico:
C’è la pasta.
Secondo te, ‘sta pasta com’è? Te
lo dico io, malecombinata, ammatassata e insipida.
Immagina ora che spunto e dico:
Minchia, c’è la pasta.
Com’è ora? Bella al dente, rossa
di pomodoro con le melanzane fritte e le pampine di basilico e tutto un profumo
che ti afferra il naso e ti dice mangiami mangiami. Eppure la pasta sempre
quella è.
Che cosa ci ho aggiunto? Niente,
solo che ho messo quella parola che tu hai sprecato prima.
Non è chiaro? Non mi sono
spiegato?
Metti che passa una femmina pezzo
di burro alta un metro e ottanta, capelli biondi e minne a tignitè.
Io ti dico: Guarda che donna!
Tu che fai? ti giri, ma senza
convinzione.
Se ti avessi detto: Minchia, che donna! Tu, ti stoccavi il collo dieci
volte e poi avresti risposto: Minchia!
Lo vedi come è importante questa
parola? È un bene prezioso che abbiamo solo noi, perché dove vai vai nel mondo,
ha solo l’altro significato. Noi l’abbiamo trasformata, è diventata come il sale. Se la usi poco e
nel momento giusto, le cose ti vengono più condite e gustose, ma se ne metti
troppo, le pietanze che ti metti in bocca le devi sputare perché il sale ti
assalta la lingua e te la fa bruciare.
Minchia Zio, hai ragione.
Figlio mio, non ti scordare, dopo
che dici minchia e prima di
dire zio, mettici una pausa.
Giorgio D'Amato
Giorgio D'Amato