Il mostro lo ricaccio giù e, mentre mi guardo dentro, trovo ciò che non credevo esistesse. Ha spinto con pazienza e pervicacia, ci ha messo anni strisciando silente tra una vena e la corteccia che protegge i rami che dal cuore bucano arterie valvole e approfittano dei miei scompensi. Se ci pensate, il cuore abita una cassa e batte batte in attesa che qualcuno presti orecchio poggiandolo sulla carne tremula.
Sempre si attende mentre qualcuno ti scivola dentro.
Mostro stai zitto, che è momento di commozione e rielaborazione, perché l’età ci costringe a rompere i patti e a liberarci e, quando accade, è poco il tempo che rimane.
Odio piangere, è da femminucce, e le femminucce sono forti, sono lo zinco che preserva dalle contaminazioni e impedisce ai miasmi della morte di ammorbare l’aria; sono forti, sono cariatidi che portano ceste di violenza sul capo alla ricerca di una goccia di fango; sono forti, recano impresse sul corpo le impronte di scarponi chiodati. Sono magre che assomigliano a due assi in croce. Nessuno asciuga loro il volto verso il monte Calvario.
E che ne faccio di questo mostro? Lo sputo fuori e mi rompo i denti. Come potrei vivere senza di te? Senza la tua ombra che affila paziente le unghie, senza il tuo corpo sudato che mi appiccica a lenzuola, candide sole perché quel detersivo è l’ultimo ritrovato per una casalinga felice.
Tiro il filo che assicura il tappo del lavandino, via l’acqua sporca dal sangue del mattino quando non posso aprire la palpebra perché la crosta mi porta via le ciglia. Resto in casa giorni e giorni finché il violanero vira al blu e poi al verde giallastro. E’ un artista del dolore.
Taci prodigiosa creatura che ammonisci, zavorra che getti giù ma della quale non vuoi disfarti completamente. Potrei ucciderti io ma non vali il mio rancore, per me che non comprendo il senso della morte e neppure quello dell’eternità. Vigliacco, l’eternità è un concetto che non ci appartiene, neanche l’amore ci appartiene. Amore eterno? Riderei ma con la mandibola fracassata, non riesco neppure a respirare. Al pronto soccorso non ci hanno creduto, è storia vecchia quella della caduta dalle scale, ma hanno cercato di rimettere i pezzi al loro posto. Compatimento pietà, avrei fatto una strage, poi penso ma gli altri che c’entrano. Infatti, rimangono fuori.
Mangio poco adesso, non rido e sibilo tra i denti le risposte perché non posso non risponderti finché ho un filo di fiato. Anche quello ti appartiene.
Stanotte il mostro ha bussato più forte, è arrivato quasi alla gola, pensavo a un incubo mentre avvertivo una stretta fortissima, un maglio d’acciaio sul collo. Il letto è suo, io mi rincantuccio sul bordo in bilico come su un cornicione senza protezione, non voglio sentire né il suo alito, né il suo calore fasullo. So che è lì. Catena e lucchetto.
Eri tu che avevi compreso che non c’era che l’alternativa del diavolo.
E il diavolo per una volta ha scelto. Ha scelto lui.
Dorme russa come ogni notte nell’amnesia del sonno che è alibi del demonio, si abbandona scomposto, non ha problemi d’insonnia, lavora, mena le mani pover’uomo, lui è stanco. Mena sempre.
Il cuscino sul volto, lo afferro con entrambe le mani, mi manca la forza, il coraggio invece lo sento crescere direttamente proporzionale alla calma che m’invade. Se aprisse gli occhi in questo momento, sarei morta.
Domani sarà domenica, il giorno del riposo del giusto.
Siamo in auto, al porco piace portarmi in strade imboscate dove si rifugiano le coppiette ad amoreggiare. Mi picchia meno in casa, perché ha capito che esiste gente che potrebbe venire a bussare alla porta. Non sono tutti coglioni e vigliacchi. E allora si va fuori, sceglie posti sempre più isolati. Oggi ha anche bevuto, ha esagerato perché fa male più del solito.
Guida tu mi dice. E’ soddisfatto, ha sonno, si affida alla mia paura. Io pestata per bene sono un cane cui hanno tagliato persino la coda.
All’inizio mi guarda poi crolla. Guido piano, comincia a imbrunire e in questa strada non ci sono lampioni, non c’è un’anima.
Quando vedo la croce di Sant’Andrea e le luci che lampeggiano, so che ho già deciso. Il suono della campanella m’ipnotizza. Rallento. La mano sinistra sulla maniglia della portiera, guardo dallo specchietto retrovisore, siamo soli come piace a lui. Lui dorme. Tiro con dolcezza il freno a mano. Fermo l’auto al centro dei binari. Lui dorme. Sento la vibrazione sotto i miei piedi che risale dal basso e mi attraversa, sono una bambolina di porcellana con gli occhi fissi sbarrati disarticolata che ritrova vigore mentre il brontolio sordo aumenta. Lui dorme, un rivolo di bava scivola dalla bocca semiaperta assieme alla sua incoscienza.
Scendo un istante prima che il diavolo se lo porti.
Adele Musso