(Tratto dallo
Statuto dell’Arte dei Pittori Senesi dell’Anno 1355)
Cap. XVI
Che neuno debbia
dire parole che fussero vergogna del rectore.
Ancho ordiniamo concio’ sia cosa che onesto sia renderci
onore al rectore e agli altri offitiali, neuno ordina di sparlare con parole
villane e disoneste, le quali parole potessero tornare in vergogna o in
vitupero del rectore et de’ suoi offitiali, e spetialmente quando fussero dette
in atto d’offitio; e chi contraffacesse sia punito et condannato per ogni volta
in XX lire e più e meno, considerato la conditione della persona e la qualita’
del fatto.
(pag. 9 de’ Le Storie Italiane: Carteggio inedito
d’artisti dei secoli XIV, XV, XVI, Vol.2° - pubblicato dal Dott. Giovanni Gane
presso Giuseppe Molini, Firenze – Anno 1840)
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Dietro le quinte tutto era pronto.
Aveva appena raccolto i fogli, buttato lo zainetto in un angolo, e si era
guardato bene dal tenersi lontano dallo specchio, perchè lo specchio è male ed è
il regno del diavolo e lui non ci voleva fare pane con quello.
Portava un abbigliamento dimesso,
semplice come la circostanza richiede. Voleva essere un ‘candidato perfetto’, perché
la santità esige quei doveri che a volte anche l’abito dimesso può rendere
agevoli.
Lui, quel reading letterario e la
sua candidatura a santità avevano un appuntamento da tempo.
Nonostante lo scampanellio nella
testa, fatto di visioni creative, e lo scompaginio dei fogli, che aveva preso da
casa senza neppure guardarli, aveva il suo futuro in mano e, cosa più certa, il
vantaggio dell’autodeterminazione a sostenerlo.
Lui era un “candidato santo” perfetto.
Non come tutti gli altri.
Nonostante il dono della profezia,
del resto, il santo non conosce a priori il suo stato di santo e neppure, in
precedenza, quello di candidato a santo. Ricostruisce la storia brevemente dopo
che s’è compiuta.
Lui, invece, affaccendato dietro alle
quinte, s’era concesso scientemente il vantaggio dell’auto-determinazione. Senza
dubbio un fatto in sè singolare, ma di scarso prestigio se non coniugata con una
investitura ufficiale.
Infatti se l’elezione a candidato
santo è assunta autonomamenete, cioè nella pienezza della propria unicità e
nella sovranità della propria solitudine, non fortifica l’argine della via
maestra verso le beatitudini, mentre l’avallo esterno è prestigio e costituisce
preferenza sopra ad ogni altra candidatura.
Anche se ciò poteva costituire imbarazzo,
lui aveva dovuto fare appieno i conti col proprio ‘integralismo’. Oggi
era pronto e cosciente. Quel reading gli offriva l’occasione giusta per
l’avallo: “candidato santo offertogli su un piatto d’argento dall’Olimpo della
critica letteraria.
Lui era in fermento, dunque, da
dietro quelle quinte. La sua lettura di oggi gli avrebbe dato l’avallo. Avrebbe
letto, già questo lo aveva deciso, dinanzi a tutta quella critica, schierata come
un plotone nella prima fila d’avanti,. come mai aveva fatto,
Sarebbe stata questa la sua apoteosi
letteraria, il definitivo passo verso la santificazione assoluta.
Tutto normale, dunque. Tutto pronto.
Esporsi di fronte al plotone d’esecuzione schierato, coprendosi il petto solo
di quei fogli da leggere.
Ma come si sa il passo è cedevole, se
non si funzionalizzano i mezzi per giungere dritti alla meta, e dunque l’avallo
e la gloria mai certo, per questo la sua autocandidatura: ma per cosa?
Al sacrificio, chiaramente! Al sacro
fuoco letterario e per l’immortalità.
Il sacrificio, infatti, riflette
l’ombra della santità, prima di cucirtela addosso. Il sacrificio è una cappa di
rispetto, un focolare scappiettante in una casa sicura, un lungo sole di
mezzanotte senza la gelida tempesta, che porterà via, piano piano, al candidato
santo delle abitudini imponendogliene delle altre.
A tavola, per esempio. Un’abitudine
sciatta. La carne è ricchezza, le radici no. La sazietà è carne, la soia e le
julienne di bambù, invece, fame e pietre d’angolo di santità.
Lui, ancora con quei fogli
spiegazzati, cosciente della sua auto-candidatura (e della necessità
dell’avallo critico), mastica, da dietro quelle quinte, aria e creatività.
Sogna, il presunto odore di santità accresciuta, versetti che di lì a poco
legegrà, più che altro sguazzando lingua e saliva nel catino dentario di un
stra-abusato siciliano fatiscente.
Ecco l’idea, avrebbe letto da santo
più che da candidato. Doveva crederci, del resto; quanti critici in prima fila,
quanta gente, dentro al teatro. Il suo primo vantaggio, farlo con convinzione e
crederci alla luce di quella sua biografia, che di lì a poco gli avrebbe il
celeste spazio presso gli Archivi Vaticani.
Una biografia, quella di lui. Una
storia di uomo degno a candidato santo. Ma che biografia?
L’essere vegano, in primis.
Come detto prima la strada passa
dalle radici. Un punto a favore fermo per istruire la canonizzazione di lui.
Poi la tecnolgia. Ed eccolo ad armeggiare sul computer perchè nella società
delle immagini i video che scorrono come fiumi, ad accompagnare i versetti che
si leggono nei readings letterari, sono ben accetti ed aiutano a raggiungere la
meta dell’aureola, oserei quasi dire: “più gevolmente”.
E poi, per mettere a parte il
computer, e il cibo primo di questo, anche l’abbligliamento, consono e leggero,
dimesso su di lui, può fare curriculum. Un secondo punto fermo da sciorinare
verso la via della canonizzazione perfetta..
L’abito, in fondo, per un candidato
santo può anche essere un fatto tutto concentrato sulle scarpe.
Chi porta delle Tod’s, per esempio,
non potrà mai avere la copertura delle Reti Vaticane e neppure la copertina sul
“Bollettino di Santità”. Neppure le candidate sante avranno vita facile se
indossa le calzature Pollini. Le Valleverde, forse, potrebbero nell’impresa, ma
è un fatto di brand: aiutano nel nome, affatto cacofonico e spendibile in un
salmo, e sono più ben più comode.
“Tentazioni – mi tuona lui, novello
Savanarola, da dietro quelle quinte – proprio come lo specchio!”.
Sarà! ma c’è motivo, forse, per
dargli torto?
Per adesso, lasciamo da parte ogni
replica per passare dai piedi al resto.
Chi porta un “abbigliamento tunicato”
ha il mestiere sicuro del “santo”, perchè lo stile è tutto e la stoffa del
“candidato santo” deve a tutt’origine distinguersi da quella del fighettato, appena
uscito dai college, e, ancor più, da quella dello sfighettato, già cavallerizzo
dei seggiolini del Bingo.
Se però poi al “tunicato” si
sostuisce il “pigiamato”, abbigliamento in tutto uguale a quello di lui (che
sta a rodersi, da dietro alle quinte, mentre gli altri leggono), e cioè un
abbigliamento super-comodo, quasi da notte in camera (e senza l’ausilio di una vestaglia
nocciola), si raddoppiano ai precedenti sopra i punti nella classifica dei
“candidati santi”.
E la cosa, questa
dell’abbigliamento, si fa seria;.anche se il pigiamato è abito di giorno ed ha una
fantasia a pappardelle verticali di colore lillà, miste a costine bianco sporco.
Altra possibilità, sempre per
maggiorare i punti verso la canonizzazione, è quella di trovare il proprio nome
accanto a una freccetta colorata, rossa o verde che sia, con la puntina rivolta
all’insù o all’ingiù nel gradimento critica del “Bollettino di Santità”.
Questo il nostro lui lo sa e per
questo da dietro le quinte scalpita.
Il chi sale e chi scende in
settimana, chiaramente, segnala, ma all’aspirante devoto del papabile beato, da
parte del critico (la prima fila ne è, appunto, piena per questo), già il santo
in ascesa a cui votarsi e a cui si dovrà accendere il lume votivo quando sarà
il tempo.
La critica è spietata nel suo
giudizio, nulla da fare: i-na-ppun-ta-bi-le. “Polvere eri et polvere tornerai”
(citazione d’obbligo per l’ex candidato santo che esce fuori da classifica).
Lui, sempre da dietro le quinte,
oppure lievitando sul palco gesticolante (l’impressione è quella d’agevolare le
altrui letture in scaletta, mentre il recondito pensiero è votato a togliere quell’imbarazzante
proscenio e concentrare su sè gli sguardi dalle poltrone della critica), ha tanti
chilometri di vantaggio verso l’aureola: la dieta giusta, perchè vegano, l’abito
adatto, perchè pigiamato (anche a meno 25 gradi fuori), e, più di tutti, si
badi bene la classe “da santo”.
La classe da santo richiede,
infatti, nonsì la scarpa bensì il sandalo. Un evergreen d’impatto, nella
tipologia degli accessori utili al candidato, per restare per secoli nella graduatoria
del “Bollettino di Santità”.
Sempre da dietro le quinte tutto era
pronto e tra le dita di lui, rapacementi accartociati, i fogli da leggere. L’analisi
del candidato santo, però, non è ancora finita, tra tutto e tutti, resta ancora
il penultimo elemento: l’importanza del pelo.
L’iconografia bizantina, ma anche
quella catacombale dei primi martiri romani (e non), ci fanno notare che il
pelo ispido, folto e spesso canuto, è segnalatore di saggezza e di miracolo in
chi lo porta. Da qui una moltitudine di santi (e sante) pelosi. Avete del resto
mai visto un quadro o un’immaginetta votiva con un santo glabro? Rifletteteci!
Lui, invece, da dietro quelle quinte
scalpitante, coi foglietti in mano e il versettino pendulo sul labbro, volendo
lasciare un’impronta nelle storie sopra alla “santità” ha deciso il cambiamento,
“modernità e misericordia, queste le mie parole d’ordine!”, dice.
Modernità, come quella di una bella
macchinetta per rasoiarsi i capelli, passata sul cranio quotidianamente per
lasciarsi una scia di pelucchi ispidi, del tutto insignificanti al tatto.
Misericordia, tanto per non deludere
i tradizionalisti dell’iconografia, con una bella barba, che in lui sono peli
cresciuti da un ante-pizzetto, molto più glamour nella caccia di nuove file di
adpeti e credenti dell’autocandidato a santo.
Infine, e questo lui ce l’aveva –
sempre a seguirlo silenzioso come il profumo Armani indosso – il discepolo
amato, il primo: Federico.
Lo so già, non ditemelo, il nome del
discepolo è importante, chè il santo non può essere santo sennò.
Federico ovviamente non è nome accattivante,
manca d’appeal per la causa di beatificazione. A un altro personaggio andrebbe
su misura, abusato come nome d’imperatori, ma da qui a farlo discepolo!
Che fare?
E il candidato santo, che vi
credete, pure lui non scherza. Tre nomi: “Filippo, Giorgio, Maria”, che già a
recitarlo nelle novene le vecchiette sfiatano di botto. E poi, come potrebbe entrare
un nome così lungo nella imaginetta votiva dei fedeli?
Comunque tutto è pronto, sempre
dietro le quinte, nella sala applaudono, l’ultimo lettore ringrazia, è il turno
del candidato santo. Viene chiamato sul palco.
“Filippo Giorgio Maria”, applauso.
“Filippo Giorgio Maria”, ripetono.
Entra prima il discepolo amato:
Federico in silenzio.
La critica in prima fila rumoreggia.
Poi l’autocandidato santo: Filippo
Giorgio Maria, martire beato delle sacre lettere (o almeno lui ci spera).
E’ il momento. Il punto decisivo.
L’avallo.
In un reading non hai tempo per
pensare, devi solo espettorare. Leggere dai fogli e convincere.
Dietro a te scorreranno le immagini,
ai lati la musica, davanti il mutismo del pubblico.
Se convicerai t’inciteranno a
proseguire, al contrario sennò meglio lasciar perdere.
Filippo Giorgio Maria sa tutto
questo. La vita gli si srotola davanti agli occhi tutta in un attimo. Il
discepolo amato alle sue spalle neppure se ne accorge. E’ serio, concentrato su
sè stesso dentro lo spirito, silente e infuso.
Leggi Giorgio Maria. Leggi Filippo e
sarai santo! (Anche se poi, e finalmente, dovrai sceglierlo secco un nome fatto
di cinque lettere: Nunzio ... ed apostolico aggiunto sarebbe di fatto
perfetto). .
Filippo Giorgio Maria sa che non ha
più scelta; ha il proprio destino in mano.
Allarga il primo foglio e lo guarda,
senza pensare espettora: “Buttana. Buttanissima, ma Troia no, questo non me lo
posso dire.”
Dalle prime file si avverte un fruscio
di tessuti, sono i critici; dalle seconde altri sommessi rumori, familiari e
amici; dalle terze in poi le orme cigolanti e pavimentarie degli aspiranti
devoti.
Tutt’intorno allo spazio teatrale un
tramestio veloce che guadagna di corsa l’uscita.
Di spalle al leggio le immagini
s’inceppano, il pc si spegne, le luci calano d’impatto ed è subito notte, nella
sala fredda e svuotata.
L’indomani sul “Bollettino di
Santità” si legge.
“Inciampa sulla via di Damasco e si
rompe l’aureola. Autocandidato santo si frantuma, restano sul selciato le
ceneri letterarie di un’aspirazione perfetta che il vento portò via”.
Dei miracoli non esistono, nemmeno
quando cambiano i fogli, i peli, la lingua e il cibo. L’abito non è tutto e
neppure i sandali.
Tommaso Gambino
- A
seguire: “La Retro-Storia Fotografata” -
Retro-Storia fotograta:
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L’autocandidato santo e il suo primo amato
discepolo
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Lo Spazio del Teatro come una chiesa
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"No tengo Santitad"