Sul
tavolo ci sono una pistola, una cartuccera, un braccialetto tribale e una
bottiglia di birra aperta. Il colore di fondo è ambrato, le scaglie di legno
ruvide s’impigliano nella pelle, sciupano le mani. La birra. Cosa darei per una
birra fredda, me ne farei un sorso. In Africa fa caldo.
Alla frontiera sono
passata carica d’immagini da catturare. Hanno preso me. Gli oggetti parlano di
una vita scolorita, contrastano con la nitidezza della natura che ha luce che
acceca.
Facce
nere sbucano da magliette variopinte giungono da mondi di sbiadita
indifferenza. “Mi ero data tempo per imparare il linguaggio universale perché
il mondo sapesse di quelli che non interessano nessuno, per raccontare le
storie dalle quali non tiri fuori un soldo.”
Alla
stazione si affollano corpi docili e curvilinei, un crescendo di voci, tra
sacchi, gabbie e borse che trasportano vite intere. Basta poco per andare via,
la paura della morte è il biglietto di viaggio.
“Perché
sulla terra c’è gente che vive all’inferno e nessuno fa nulla?”.
La
guerra insegue, si prova a distanziarla. Io invece le vado incontro, è il mio
mestiere, lo faccio sorridendo.
Mi
ricordo delle dita piccole di una bambina, aveva fame, ma il topo è stato più
furbo e adesso i medici più pazzi di me la salveranno.
Si
cammina ruderi su ruderi, canottiere lunghe ombre nere e magre, ma se iniziamo
a ridere, lo fottiamo il sole.
Non
ha ragioni la guerra, ne ha mille. Gli uomini rannicchiati sul terreno
ritornano alla madre. Ho una maglietta verde militare addosso.
Che
cosa resta di me? Gli occhi dalle pagliuzze dorate, le ciglia buie, la linea
sottile di labbra quasi esangui, lo sguardo su un mondo così orribile che non
puoi smettere di guardarlo.
Camilla
Lapage, fotoreporter francese, ventisei anni uccisa nel 2014 in un’imboscata
nella Repubblica Centroafricana.
Adele Musso