Google+

lunedì 12 gennaio 2015

Camilla


Sul tavolo ci sono una pistola, una cartuccera, un braccialetto tribale e una bottiglia di birra aperta. Il colore di fondo è ambrato, le scaglie di legno ruvide s’impigliano nella pelle, sciupano le mani. La birra. Cosa darei per una birra fredda, me ne farei un sorso. In Africa fa caldo.
Alla frontiera sono passata carica d’immagini da catturare. Hanno preso me. Gli oggetti parlano di una vita scolorita, contrastano con la nitidezza della natura che ha luce che acceca.
Facce nere sbucano da magliette variopinte giungono da mondi di sbiadita indifferenza. “Mi ero data tempo per imparare il linguaggio universale perché il mondo sapesse di quelli che non interessano nessuno, per raccontare le storie dalle quali non tiri fuori un soldo.”
Alla stazione si affollano corpi docili e curvilinei, un crescendo di voci, tra sacchi, gabbie e borse che trasportano vite intere. Basta poco per andare via, la paura della morte è il biglietto di viaggio.
“Perché sulla terra c’è gente che vive all’inferno e nessuno fa nulla?”.
La guerra insegue, si prova a distanziarla. Io invece le vado incontro, è il mio mestiere, lo faccio sorridendo.
Mi ricordo delle dita piccole di una bambina, aveva fame, ma il topo è stato più furbo e adesso i medici più pazzi di me la salveranno.
Si cammina ruderi su ruderi, canottiere lunghe ombre nere e magre, ma se iniziamo a ridere, lo fottiamo il sole.
Non ha ragioni la guerra, ne ha mille. Gli uomini rannicchiati sul terreno ritornano alla madre. Ho una maglietta verde militare addosso.
Che cosa resta di me? Gli occhi dalle pagliuzze dorate, le ciglia buie, la linea sottile di labbra quasi esangui, lo sguardo su un mondo così orribile che non puoi smettere di guardarlo.

Camilla Lapage, fotoreporter francese, ventisei anni uccisa nel 2014 in un’imboscata nella Repubblica Centroafricana.

Adele Musso