I ragazzi camminano sul campetto sterrato dietro la scuola - tutti i ragazzi che abitano nel quartiere vanno a giocare in quel campo; Marco e suo fratello, Lucio e Ottavio, anche Livio ci va qualche volta; spesso solo per guardare gli altri che giocano -. Alcuni vanno avanti, fino al muro di cinta, poi abbandonano gli zaini e ridendo cominciano a correre lungo il perimetro del campo.
Lui vorrebbe strappargli quel sorriso
sardonico dalle labbra, avrebbe voglia di cacciagli giù nello
stomaco ogni singola parola; velenose; “ tua madre, serva…”.
Ha sentito solo quelle. Si sono fermate nelle orecchie, nella gola,
e negli occhi, insieme al viso di sua madre spettinata e pallida come
ogni mattina, quando entra nella sua stanza e gli bisbiglia
nell’orecchio che sta andando - quel lavoro la uccide. E mai
nessuno l’avrebbe trattata con rispetto, anche adesso che hanno una
casa; ancora li chiamano zingari.
Dopo alcuni rimandi, duri – i colpi
rimbombano nell’aria - , lui riceve il pallone e subito lo atterra;
lo conficca sul terreno con forza sollevando una nube di terra rosa,
lo trattiene con un piede. L’altro lo incita, urla: “tira!”.
“Tira”, ripete. Ma lui lo fissa e non si smuove, anzi schiaccia
il pallone più forte, tenta di salirci sopra, ride e lo fissa. Vuole
pareggiare la partita. Ora anche gli altri ragazzi smettono di
correre, si fermano a guardare. Lui fa uno scatto – i capelli si
sollevano, frustano l’aria - e raggiunge l’altro; si lancia su
di lui; restano in bilico, stretti l’uno contro l’altro. Lui non
gli dà tregua, lo colpisce alla spalla e alla faccia, più volte.
L’altro recupera l’equilibrio e afferra la sua maglia, lo getta
a terra; e lui nella terra vorrebbe restarci. L’altro allunga la
mano e raggiunge la sua faccia livida, le labbra serrate - si
colorano -, le dita si immergono nella pelle tesa e sudata, il collo
si gonfia, ingoia sangue e rabbia.
Rosa La Camera