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martedì 30 giugno 2015

Cambio di stile - (sez.Premio Natale Patti)

“Fino a qualche decennio fa, in ogni processo per violenza carnale, l’avvocato difensore dell’imputato non mancava mai di citare poche parole di Ovidio nell’Ars amatoria:  grata est vis puellae. La forza gradita alle fanciulle che, nella mente di un autore di duemila anni fa, stava a significare la giusta, diciamo così, pressione  che un uomo doveva esercitare per spezzare la doverosa ritrosia femminile, così che quest’ultima non si trasformasse in facilità e scarsa serietà”.

L’incipit a Maria non era piaciuto granché. Freddo, didascalico, pure un poco pedante. Così, aveva pensato: come si fa a produrre nel lettore quel pathos che una vicenda simile dovrebbe scatenare? Le avevano chiesto di raccontare la sua storia, il suo incubo camuffato da amore. Una rivista di provincia, con pochi affezionati lettori, che raccontava fatti di provincia e che non superavano quei confini. Le cose erano emerse perché lei aveva compiuto un gesto non di provincia. Aveva permesso che tutto venisse  allo scoperto: un putiferio, di quelli appunto di provincia, nei quali si formano due schieramenti  belligeranti, modernisti e conservatori, giusto per dare dignità a pensieri non sempre limpidi e onesti.
Perché il suo piccolo (o grandissimo) dramma era stato di quelli che mal si raccontano. Perché il fatto in sé poteva apparire modesto, o esagerato, o magari frutto di una femmina capricciosa e poco rispettosa del marito. Maria era una maestra delle elementari, il marito un capomastro in una ditta edile della zona. Non sembravano una coppia ben assortita, anche se questi ragionamenti, in materia di amore o matrimonio, hanno poco senso. Comunque all’occhio della gente tutto pareva scorrere pacificamente, e anche affettuosamente.
 Eppure Maria non  percepiva così il rapporto.  Sentiva  una cappa perenne, un abito sempre più stretto che impediva di respirare bene.  Il marito era un tipo brusco. A lei era piaciuto per i modi virili e sbrigativi, che però potevano nascondere la forza di dare protezione. Ed era assimilabile a questa visione anche nei momenti di ravvicinata intimità. Per un certo periodo. Solo che, col trascorrere del tempo, forse cambiata era Maria, o forse il marito, lei cominciò a percepire altro. Quelle che all’inizio le erano sembrate strette di passione, cominciarono a sembrarle abbracci di possesso, e la dolce violenza cominciò a sbiadire nell’aggettivo. No, non è giusto definirla violenza, nessun tribunale gliela avrebbe riconosciuta. Il cambio che lei percepiva era nella pretesa nascosta nei gesti, si sentiva come a disposizione di una autorità superiore che decideva anche per suo conto. Ma lei, nella sua testa, la chiamava violenza. Non lasciava lividi corporali, ma solo tumefazioni mentali, fratture del desiderio. La percezione esatta di quella che il linguaggio giuridico chiama (orribili a dirsi e pensarsi) obblighi o doveri coniugali. Si sentiva usata, non amata o desiderata.
Quando lui minuziosamente la frugava, Maria non avvertiva l’inizio di un lieve e felice percorso verso un lungo piacere finale. Si sentiva invasa, occupata quasi militarmente, arresa prima di combattere. E perché non dire di no? Ci aveva pensato infinite volte. Ma capiva che lui non avrebbe capito. E poi aveva paura. Non perché avesse sperimentato in passato dei modi sgradevoli e violenti. Ma per timore dell’ignoto. Come è un uomo grande grosso e volitivo privato dei suoi “diritti”? Storie di cronaca, e amiche loquaci, le avevano aperto squarci di vita mica gradevoli. Inoltre, i modi si facevano sempre più stringenti, fisicamente parlando. La passione per lei somigliava sempre più a un rigor mortis, ma da viva. Lui la circondava con tutto il suo corpo, da non lasciarle spazio, e lei si irrigidiva  impotente, sperando di diventare ancora più minuta di quanto non fosse già. Al respiro del piacere subentrava l’apnea o dei lunghi respiri come se cercasse di calmarsi. Aspettando la fine del tutto. L’unico vero piacere.
E si decise. Parlò. Provò a spiegare  perché non si sentisse coinvolta, perché il dolore e la vergogna fossero i sentimenti più forti, perché sentiva che l’amore non era più  il motivo di questi gesti intimi. Usò parole dolci, sommesse, semplici. Ma lui capì solo che lei aveva a che dire sulla sua virilità. Troppe fisime, rispose lui con paziente intolleranza, hai solo bisogno di sano sesso e meno chiacchiere nella testa. E quella stessa sera mise in pratica la teoria. Riducendola al solito stoccafisso. Alla fine ci fu anche il commento: “Hai visto che è andato tutto bene?” “Vedrai che ti passa” fu la minacciosa profezia. E fu lì che Maria comprese che non sarebbe cambiato e che il resto sarebbe stata violenza pur senza schiaffi e calci. Ma perché non lasciarlo? Sì, lo avrebbe fatto. Ma non le bastava, si chiedeva quante altre subissero la stessa condizione nella quale essere donne non era una qualità ma un attività di servizio. In questo mondo invisibile della famiglia si consumano violenze sottaciute, non drammatiche da cronaca, senza titoli, ma umilianti e dolorose. Col corpo integro e lo sfacelo dell’anima.
Maria riguardò l’inizio dell’articolo. Non le piaceva proprio. Si chiese chi mai l’avrebbe creduta. Dubitava che un giudice le avrebbe dato ragione. Decise comunque di cambiare stile  letterario. E cominciò un nuovo testo. “Gentile maresciallo…”

Francesco Colonna


Il premio Natale Patti nasce da un'idea delle associazioni Kaleidos e Giulia.
Con la collaborazione di AAS e www.facciunsalto.it