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giovedì 1 ottobre 2015

Sette porte

Questa storia inizia con una porta che si apre.
In fondo, in che altro modo potrebbe avere inizio la mia storia?
Dico questo perché tutti gli eventi che hanno stravolto la mia vita sono iniziati con una porta che si apre.

Dalla prima porta esce Clarissa, figlia di Margherita D'Antoni, con l'apostrofo, e Francesco Buonantonio.
Mi sono sempre chiesta come si scrivesse il cognome di mia madre: si scrivono maiuscole sia la "d" sia la "a" o soltanto la "d"?
Corre l'anno 1990, è il più freddo 30 Ottobre che gli anziani di famiglia ricordino in città.
Non voglio raccontare bugie sulla mia nascita: un parto normalissimo, piango come tutti i bambini e, per fortuna, vengo al mondo in perfetto orario, né troppo presto né troppo tardi, insomma, nulla di speciale da menzionare in merito.

Dalla seconda porta entra Francesco, mio padre, ho dodici anni e nella mia stanza sto facendo qualcosa di assolutamente normale per una bambina della mia età;
Francesco, senza bussare, apre la porta facendo tremare le finestre con lo spostamento d'aria, ha gli occhi lucidi, una mano poggia sullo stipite della porta sorreggendo tutto il peso del suo corpo e suggerisce che tra davvero pochi secondi gli servirà per slanciarsi nuovamente indietro e andare via, l'altra mano stringe senza peso la maniglia ancora abbassata e il suo busto varca la soglia mentre le sue gambe si nascondono ancora nel corridoio di casa.
Posso giurare di sentirne a centinaia ma dalla sua bocca non esce una sola parola.
Francesco richiude la porta slanciandosi nuovamente indietro con la mano sullo stipite, proprio come avevo previsto, e il suono dei suoi passi che si fa sempre più lontano in davvero pochi secondi è l'ultimo ricordo che ho di lui.

Dalla terza porta esce Claudio, il mio primo fidanzato, o almeno credo, ha diciassette anni, due in più di me; la porta è quella dei bagni della scuola.
Anche per questo episodio non voglio raccontare bugie: non mi stringe forte i polsi, non mi dà schiaffi sul viso né mi cinge il collo con una mano.
Scelgo di seguirlo, consapevole del fatto che sto per mettergli nella tasca dei jeans la mia verginità, cosciente del fatto che questi jeans andranno in lavatrice e che la mia verginità sarà centrifugata dritta nelle fognature insieme a tante altre dimenticate in tasca.
Sola, ritorno in classe per la lezione di latino, oggi la professoressa Moneti spiega la quinta declinazione; mi siedo accanto a Barbara, la mia amica del cuore e compagna di banco, lei si accorge che ho un odore diverso, sento addosso i suoi occhi inquisitori, così tiro fuori dallo zaino il cerone bianco, lo apro, con l'indice e il medio della mano destra ne raccolgo un bel pezzo e lo distendo sulla mia faccia, dalla borsetta dei trucchi tiro fuori il rossetto rosso e dipingo un abbondante sorriso sulla mia bocca, poi prendo il blush, "to blush" in inglese significa arrossire, e con il pennello mi do dei buffetti sulle guance; per finire tiro fuori una parrucca riccia color arancione e ci nascondo dentro i miei capelli.
Il suono della tavoletta del cesso avvitata male che schiocca la lingua a ogni colpo del bacino di Claudio è l'ultimo ricordo che ho di lui.

Dalla quarta porta entra Margherita, mia madre, io ho diciannove anni;
voglio dei soldi miei per comprare i tacchi che aveva indosso Barbara per il mio compleanno; ho anche iniziato a fumare e non posso continuare a scroccarle le sigarette ogni volta che usciamo.
Sono completamente nuda davanti il computer e la webcam dipinge sullo schermo del monitor "L'origine du monde" ma la mamma è amante di Gustave Courbet e si accorge che il quadro non è originale ma una brutta copia.
Umiliata, sento ancora sul viso canali di pelle secca che le lacrime hanno solcato a peritura memoria del mio peccato mentre dispongo sul letto i pochi vestiti da portare via insieme a un paio di cornici, una bambolina di pezza e un diario gualcito.
Trascino i passi lungo la strada per trasferirmi a casa di Barbara, non so quanto potrò restare a dormire da lei, non so se avrò il coraggio di raccontarle la verità: in fondo, temo ancora i suoi occhi inquisitori.
Il suono delle grida di vergogna e delusione di mia madre sono l'ultimo ricordo che ho di lei.

Dalla quinta porta esce Barbara, gridando senza neanche guardarmi in faccia, ho ancora diciannove anni;
ho deciso di raccontarle la verità e lei, in un primo momento, sembrava aver capito, sembrava aver accolto la mia sofferenza, il patimento di un'anima sola che avrebbe tanto bisogno di una guida che le indichi la strada per ritrovare sé stessa.
Quando non sapevo venire a capo di una questione, mia mamma mi suggeriva sempre di dormirci su perché "la notte porta consiglio", diceva;
il consiglio che la notte portò a Barbara fu di allontanare al più presto quella persona che ormai, si era accorta, era diventata troppo diversa da lei, molto più simile a una di quelle "donne schifose che esibiscono la merce sul ciglio delle strade."
"Non ho più tempo per le chiacchiere, devo andare a lavoro" mi sbraita contro, "stacco alle 17.30 e mi aspetto di non sentire più nemmeno il tuo odore di troia in casa mia".
Il suono dei suoi tacchi, quelli che volevo comprare anch'io, sono l'ultimo ricordo che ho di lei.

Dalla sesta porta entra Marco, un uomo sulla trentina, mentre io ho sempre diciannove anni;
mi trovo nel vagone deserto di un treno per non so dove, un gesto avventato frutto di orgoglio ma in cuor mio sento che ho solo bisogno di fuggire un secondo per trovare il coraggio di tornare da mamma e chiedere il suo perdono.
Mezzanotte è passata da una buona mezz'ora e anche per questo episodio non voglio raccontare nessuna bugia: Marco mi fissa, si avvicina, si presenta, mi stupra e scende alla fermata successiva.
Il suono freddo della voce registrata che annuncia la fermata a cui è sceso Marco è l'ultimo ricordo che ho di lui.

Dalla settima porta esce Clarissa, non importa più quanti anni abbia;
"Clarissa era una ragazza normale, sorrideva, amava la vita" dice mia madre con la voce rotta al mio funerale.
Il suono della terra che viene spalata sulla tavola di legno della mia bara è l'ultimo ricordo che ho di me.

Se qualcuno è arrivato in fondo alla mia storia spero che ne conservi un ricordo e la racconti;

spero che la racconti perché il mondo conosca la storia di Clarissa, una ragazza normale violentata dalla società prima che da un solo uomo, e lo spero perché di Chiara, Martina, Francesca, Giovanna, Alessandra, Agata e di tutte le altre ragazze "normali" le grida di aiuto non siano l'ultimo ricordo che il mondo abbia di loro.

Federico Mosca

Racconto finalista del premio letterario Natale Patti - organizzato da Assocult Kaleidos, con AAS e FUS