La prima volta che mi morse avevo dodici anni e pensai che sarei morta.
Invece strinsi anch’io i denti e ingoiando bolle d’ossigeno e acqua riemersi, dopo averla vista sbattere furiosamente la testa contro le pareti della fessura della sua tana.
Ero risalita lentamente,
così come mi aveva insegnato Enzo, erano due metri o poco meno. Lui andava giù
verso il buio sin da ragazzo, a me di buio bastava quello che mi riempiva la
casa.
Mura mi aveva attaccato
ancora, non si fidava di me, e piccoli brandelli di carne rosa adesso
macchiavano l’asciugamano del bagno, appena lei lo avesse scoperto avrebbe
urlato; con i denti apro il tappo della tintura di iodio, mai ammoniaca, Enzo
la sapeva lunga. Stavolta un cerotto non sarebbe bastato.
Mura è possente ha occhi pazzi,
opaca, bellissima, come coloro che si nutrono di ombre. Io non la mangerei mai.
Non capisci se ti guarda, non capisci se si accorge di te.
Domani torno.
Avvolgo il braccio con la
pellicola rubata in cucina, così non dovrebbe bagnarsi.
Scendo piano, cauta. Non
voglio smuovere troppa sabbia, ho poco tempo prima che mi scoppino i polmoni. Le
ho portato del cibo avanzato, riuscirò a conquistarla? Se provo a muovermi come
lei, a non avere paura.
Mura non c’è, la tana è più
buia del solito, sembra vuota. Risalgo.
Trascorro delusa il resto
della giornata come un granchio vuoto sugli scogli. Poi lancio un sibilo, e mi
sorprendo. E’ una leggenda, mi diceva Enzo coi suoi occhi verderame e la pelle
di cuoio vecchio. A me quel vecchio piaceva. Le murene sono soltanto femmine che
escono per accoppiarsi una volta l’anno sulla terra, con le vipere maschio che
le richiamano con il loro sibilo. A me questa storia piace.
Ho i piedi sporchi di sabbia
e pietrisco tra le dita, sporco il corridoio, lei impreca, vorrei guardarla,
dire qualcosa, abbasso lo sguardo, nascondo il braccio ferito dietro la
schiena.
Siamo rimaste sole, mio
padre manda del denaro, io non ne ho mai visto, non vedo nemmeno lui.
Mura è mia amica, lei non
vuole farmi del male. Stai attenta, Enzo diceva.
Oggi ho la febbre, il
braccio mi pulsa.
Ricaccio le lacrime, le
ingoio, ingoierei lei.
L’amore non rende ciechi,
solo imprudenti. Mura va verso il terreno, non le servono le orecchie per
arrivare alla pietraia dietro la casa, dimentica di tutto segue l’istinto, preda
di un richiamo al quale non sa rinunciare, l’antidoto non esiste. L’amplesso da
compiere ad ogni costo, furente, cieco, con la bocca aperta e le spire confuse.
Femmina che deve adempiere, compiere, assolvere, procreare, strisciare. Mura e il rettile, unico serpente, è maschio e femmina, il confine
tra mare e terra è annullato. La leggenda si compie.
Devo essermi addormentata, un’immersione
più lunga del solito, è lei che mi parla, un piatto fumante di una brodaglia
dove galleggiano pezzi di carne bianca, tenera.
Mangia hai dormito due
giorni e la ferita puzzava. L’abbiamo presa, ti abbiamo afferrata, mangia.
Adele Musso