… insomma, viene Gerlando, colla
faccia grave che si mette per annunciare gli ospiti di rispetto, e mi dice:
“Sua Eccellenza ha gradit!” Dice proprio così, quel vecchio ubriacone, gradit.
Io lo so che significa: ora si mette
a raccontarmi le facce che ha fatto il Principe mentre se lo mangiava, questo
dolce che fa venire l’acquolina in bocca ai morti.
Si chiama Gelatina al rhum;
a me me l’ ha insegnata personalmente Monsù Gaston, che l’ha imparata a Parigi.
E’ facile. E che ci vuole? Zucchero, un po’ d’acqua, gelatina, e un bel
bicchiere di quel rhum che sa di caramello e di sigaro.
Il Monsù Gaston dice che ci vuole
anche la garniture.
Noi, da francese la facciamo
siciliana, e ci mettiamo ciliegie candite e pistacchi secchi.
“Puzzi di cipol”, mi dice Gerlando.
Mi scuncica sempre, ma gli rispondo: “tu puzzi di alcol, ogni giorno di più.
Don Fabrizio si accorgerà che la scorta di rhum sta finendo.”
Il Principe, lui, gli funziona
il gran naso che ha, apprezza gli odori buoni, si bea dei sapori e delle
salse, gradisce in punta di forchetta ma è liccu.
Non sa da quali materie puzzolenti
tiriamo fuori tutte le pietanze che serviamo. Arriva dalla caccia con le lepri
nel carniere, e per ammorbidire le carni le lascio riposare il tempo giusto
prima che cominci a puzzare di carogna. Insomma, tra il selvatico che aveva in
vita e la carogna della morte c’è il momento in cui la lepre sa stare a tavola!
Faccio un altro esempio. Questa gelatina
si fa con una mollame trasparente, che
il Monsù la chiama colla di pesce
perché dice che viene dagli storrioni russi. Ma quali storrioni! Lo so io da dove viene sta’ gelatina: ce la
fa Piddu il porcaio. Che macera le cotenne di maiale - e pure le ossa e le
cartilagini, ci mette. Filtra tutto e lo tiene al buio finché l’odore di grasso
rancido se ne va. E poi viene una cosa buona. Come le rose del giardino, che
senza letame non crescono così belle.
In cucina, ognuno coi suoi odori. Ci
sono tutti i buoni profumi dei formaggi in dispensa, i primosale che sanno
d’erba, i pecorini stagionati e legnosi, le ricotte quando è il suo
tempo. In cucina ci può entrare un cieco affamato, e sa cosa mangiare!
La cucina dei poveri è povera e
sincera: il pane è pane e il tumazzo è tumazzo, quando non se li prendono quel
mangione del prete e quell’usuraio del campiere.
Invece, la cucina dei ricchi è lavorata assai, che non è più quello che era, e non è manco
quello che ti sembra. Nel loro mondo tutto profuma, mentre attorno a noi il
mondo quasi sempre puzza di roba marcia.
Nei loro palazzi, i pavimenti
profumano di cera d’api legni di chissaddove e acqua di zagara. E per le strade sa
Dio quanto letame!
I loro giardini hanno rose e
magnolie e garofanini che sembrano fatti di pepe e cannella, tutte cose che
pizzicano il naso. I loro cortili d’onore profumano di seria mortella che a me
veramente ricorda il camposanto.
Ma le corti interne, dovete sentire
come puzzano di orina e sterco di topi!
E pure i loro saloni dorati puzzano,
di polvere vecchia e di crine ammuffito, me lo dice sempre Rosina, che si lamenta anche del tanfo dei càntari nelle
camere da letto. Quelli mangiano profumi e rose, ma quando cacano…
Nei camini c’è puzza di zolfo e di
diavolo. I poveri diavoli che abitano i bassi del palazzo di città puzzano
sempre di sudore e di stracci sporchi; dalle bocche gli sale un puzzo di denti
guasti, dagli stomaci un puzzo di aglio e cipolla e dai corpi viene una puzza
di formaggio vecchio e caglio.
Le cucine, non dico per scherzo, le
cucine sono sempre piene di intestini e avanzi di pesce e di carne, la balata
di marmo là puzza di cavolo marcio, di grasso di bue e di sangue raggrumato, e
non basta la liscivia a pulirlo. Il
forno puzza di fumo e fuliggine eppure ci escono i pasticci di Monsù, che sanno
di cannella e sugo. Quei bei pasticci con la crosta lucida. Quella si fa col
rosso d’uovo, e viene fuori un giallo scuro e lustro come oro vecchio, che ci
potrebbero dorare le stanze.
Ma qua in cucina il profumo dura un
attimo, il tempo di servire. Anche il profumo ci scippano!
A noi resta da pulire tutta questa
spazzatura, giù a stricare pavimenti con soda e sapone molle, che per togliere
quest’altra puzza lasciamo le cucine sempre aperte, perché solo l’aria sembra buona,
qui. Quando è buona.
Le sguattere stricano tegami e pentole
con sapone a scaglie, quello di
Marsiglia che sa di mare; e poi cenere e pietra pomice e fatica.
E i signori, là a bearsi dei pranzi.
Ma dove credono di vivere?
Quando faccio il cappone alla creta,
che me lo spiano tutti, lo pulisco dentro ben bene, lo infarcisco di umida
pancetta col suo grasso dolce, di carota acidula, di cipolla, di salvia pelosa,
di provocante maggiorana, di finocchietto e anice squillante; lo riempio bello
gonfio e lo lego. poi gli faccio una
bara di creta stretta stretta, a poco a poco che neanche se ne accorge, , e lo
metto in forno.
I nobili così sono, densi di buoni
profumi, ma stretti nelle loro cerimonie, colle credenze e convinzioni
ammuffite: bisogna lasciarli cuocere nel loro sugo (altezzoso).
Lui, il Principe, solo quando sentì
il puzzo di carogna, come i fagiani lasciati a marcire appesi per le zampe,
solo allora si agitò. Me l’ha raccontato Gerlando. La puzza dolciastra saliva
da dietro il muro del giardino, ma lo scirocco impediva di arrivare
all’origine. Ci vollero due giorni per trovare
quella carogna borbonica, che Dio lo maledica, sotto i belli limoni già pieni
di zagara.
Dice Gerlando che solo allora il
Principe capì che la sua casa era invasa; veramente mi disse “profanat”, e poi
mi spiegò che significava.
Profanat.
Assieme a tutto il suo mondo, dice
Gerlando, in una maniera che non si aspettava, abituato coi servi che
obbediscono e col mondo che gira come vogliono loro.
La fine del mondo gli arrivò con
l’aria, e lo prese per il naso. E che poteva fare, il Principe, contro l’aria?
Fabrizio Sapio