Il risveglio è umido, macchia lussuriosa incapace di penetrare due anni di grida possessive, gemiti innocenti e collari sodomizzanti.
Sento la macchia inondare la carne, sempre di più, allora lo stringo, il crotalo, dallo stomaco, gli sbatto la testa contro il lenzuolo, l’ansia di infilarne il collo dentro la cesta in vimini mi obbliga a giocare con il passato.
Mi infilo due dita in gola. L’ugola assaggia il veleno notturno, le palpebre si chiudono di riflesso, dialogano con la lingua, che disegna vortici temporali dal sapore di pelle appena lavata, shampoo all'albicocca, pavimento fresco, sudore.... ANTIDOTO!
(Il cuore pompa più respiri dei polmoni.)
Mi rannicchio, ne ascolto il lamento, lo uccido quando prendo in mano due sorrisi, disegnati a matita e magnetizzati sulla parete della parete.
(Sei b)
Lo strofinarsi delle mani irriga il volto, una corda vocale s’azzarda a sussurrare, ma il suo vibrare viene bloccato dal contrarsi del pomo, che cade come un sasso in un pozzo, per poi evadere in un mezzo conato.
Entro in doccia, confondo ciò che pulisce con ciò che purifica e non riesco a distinguere l’acqua dalle trasparenze che sfogano il mio corpo. Torno a comprimermi, il rossore delle pupille allo stesso livello delle ginocchia.
(“Dove sei?”)
Sssshssssh.
Con questa mattina, sono settecentotrentatrè.
Roberto Zagarese