Di Philip
Roth avevo letto Professore di desiderio, avevo scoperto che la letteratura
americana era andata molto avanti e che questo scrittore usava il bisturi senza
timore, era una specie di vivisezionista dell’anima e in quel caso del
desiderio. La stessa cosa poi gli ho visto fare in quest’altro romanzo –
Pastorale Americana, libro uscito in Italia nel 1998, lo stesso anno in cui
vinse il premio Pulitzer per la narrativa.
In queste
settimane si è molto riparlato del libro, da quando è uscito nelle sale il film
con lo stesso titolo, ma del film non so altro che quello che si dice in giro e
cioè che non è riuscito a eguagliare il romanzo, allora mi è venuto il
desiderio di parlarne.
Ho visto in
questo romanzo un Roth realista e visionario allo stesso tempo, uno che scava e
ricuce provando a far ricombaciare i lembi di quello che sembra definitivamente
squarciato e irrecuperabile, mi riferisco alla società americana e alle sue
conseguenze; mi riferisco a quel fenomeno del terrorismo autolesionista che
negli anni sessanta scoppiò in alcune province americane durante la guerra in
Vietnam (e che ho l’impressione di rivedere in quegli episodi di assalto di
scuole o centri commerciali da parte di alcuni individui, e che compaiono inseriti
fra i fatti di cronaca).
Come Roth ci racconta, quel fenomeno servì da alibi a tanti imprenditori e capitalisti americani per avviare nuove imprese in Asia, addirittura nell’Europa dell’est ancora prima della caduta del muro….e poi in Cina (trenta, ma anche quarant'anni fa, buona parte delle targhette negli abiti e nelle scarpe americane portavano già il “made in China”), liberi dai vincoli sindacali e sociali che si erano affermati in seguito al raggiungimento di maggiori garanzie per gli operai. L’alibi aveva una sua ragion d’essere, secondo l’autore, molti quartieri erano stati presi letteralmente d’assalto dai rivoltosi. La chiusura delle fabbriche lasciò tantissimi operai americani, per lo più neri e sudamericani, senza lavoro e senza prospettive; quei territori divennero deserti abitati da derelitti, vecchi e giovani che si aggiravano come dannati, esseri umani resi irriconoscibili, dediti al crimine, il furto in massima parte.
Come Roth ci racconta, quel fenomeno servì da alibi a tanti imprenditori e capitalisti americani per avviare nuove imprese in Asia, addirittura nell’Europa dell’est ancora prima della caduta del muro….e poi in Cina (trenta, ma anche quarant'anni fa, buona parte delle targhette negli abiti e nelle scarpe americane portavano già il “made in China”), liberi dai vincoli sindacali e sociali che si erano affermati in seguito al raggiungimento di maggiori garanzie per gli operai. L’alibi aveva una sua ragion d’essere, secondo l’autore, molti quartieri erano stati presi letteralmente d’assalto dai rivoltosi. La chiusura delle fabbriche lasciò tantissimi operai americani, per lo più neri e sudamericani, senza lavoro e senza prospettive; quei territori divennero deserti abitati da derelitti, vecchi e giovani che si aggiravano come dannati, esseri umani resi irriconoscibili, dediti al crimine, il furto in massima parte.
La storia si
avvolge attorno allo “Svedese” che eredita dal padre ebreo, non solo il
mestiere di guantaio, a cui viene addestrato fin da bambino, e di imprenditore,
ma anche un’eredità che alla seconda generazione si scopre già divorata dal suo
stesso male, finendo nella spirale del profitto crescente e inarrestabile. Sembra
però che né il padre né il figlio abbiano consapevolezza di questo. Cosa c’era
di male, infatti, nel voler ricavare profitto da una impresa che era stata
costruita con il sacrificio di una intera vita? Si era avvalsa della
“collaborazione” di tanti uomini e di tante donne che in cambio chiedevano solo di poter
mantenere dignitosamente i propri figli e magari di farli studiare e poi
diventare migliori di loro..
Niente
riesce a svelare il nodo che inceppa questo bellissimo progetto e l’attentato
all’ufficio postale segna solo l’arresto della serenità dello Svedese che vive
l’accaduto come una fatto personale, suo e di sua moglie, non come il punto di
rottura di questa linearità impossibile tra passato e presente, tra sogno e
realtà, tra lavoro e profitto.
L’attentato
riuscito viene preparato ed eseguito da Meredith, erede e
alterego del protagonista, l’anima nera che lui non era stato capace di tirare
fuori e che invece aveva trovato posto nella personalità di sua figlia.
L’attentato
segna la caduta delle illusioni, in quanto di certezze non si possa parlare,
del protagonista ma anche di quel Continente, delle sue prerogative di
paeseguidadelmondo nella missione di progresso che di cui si era autoinvestita.
Frutto di un
autoinganno che Philip Roth contribuisce ad evidenziare, se non bastasse
guardare la realtà, attraverso la finzione narrativa.
Emerge
comunque, nel contempo, la mancanza di una volontà negativa, l’autore sembra
crederci; quello che mi pare di vedere è invece l’incapacità di vedere lontano,
profeticamente, e questo è già molto grave, visto che ci muoviamo nello sfondo
dell’ebraismo americano; a noi sembra che nasca da quella fonte l’illusione, da
quella radice che una bomba ha voluto sradicare, per mano della sua stessa
progenie, la figlia che pare essere nata con questa nuova missione:
autoannientamento.
Rosa La Camera