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venerdì 28 novembre 2014

Portatore sano di emozioni altrui

Le campanelle della stazione di Bagheria suonano tutte in perfetto orario, cinque minuti prima che il treno arrivi alla stazione. Tutte tranne una. Quella dannata campanella del treno delle 5 e 45. La conosco molto bene io, la stazione. Lì ci passo molto tempo, quasi tutte le notti. E’ il luogo più vicino ad una casa che ho da circa tre anni, se casa si può definire una panchina dove andare a dormire la notte. 


Ormai la mia vita non ha più motivo di essere vissuta. La mia vita è semplice sopravvivenza tra un’elemosina e l’altra. Per questo ho iniziato a non vivere più la mia vita, ma quella degli altri. Sono un portatore sano di emozioni altrui, perché le mie non hanno più necessità di essere ascoltate. 
Ogni giorno conservo quei 50 centesimi per poi andare ogni mattina al bagno della stazione. Barbone sì, ma l’igiene non si nega a nessuno. Di vestiti ne ho pochi. Due camicie, una giacca più pesante, pantaloni, un paio di scarpe. Diciamo che non perdo troppo tempo nel decidere cosa mettere.
Quando sono pronto per iniziare una nuova giornata, anche se non sono mai pronto a viverla, inizia la sorpresa. Sono le 7 e mezza e prima di uscire dalla stazione mi piace vedere la gente che scende dal treno, mai in orario.
Ragazzi con zaini stracolmi, alcuni con la faccia ancora sul cuscino comodo, altri già terrorizzati dalle interrogazioni, dai compiti. Quanto li invidio. Poi scendono anche loro, che non invidio affatto. Uomini d’affari, notabili, avvocati. Tutti bell’e profumati e in giacca e cravatta. Pronti ad affrontare un altro giorno che non vivranno mai a pieno. Per vivere una vita del genere, tanto vale tenersi la mia, che almeno posso decidere cosa essere. 
Mi immagino come un ragazzo, nemmeno bello e magro. Uno qualunque. Ma che riesce a gioire e sorprendersi per qualunque cosa, perché chissà quanto durerà ancora questa sua gioia, prima di entrare a contatto con la realtà. Prima di capire che nella vita vanno fatte scelte e non tutte portano dove vorremmo noi. Mi immagino lui, oppure immagino di essere un fotografo. O magari un pittore. Con le belle giornate che ci sono a Palermo chissà come sarebbe bello perdersi nella natura, nella pace. Ma l’unica natura che conosco è un’aiuola in via Roma, dove di solito mi fermo allungando una mano per avere qualche spicciolo. Ogni tanto il bicchiere di plastica si riempie di monete di bronzo. Non so nemmeno perché faccia così compassione alle persone.
Mi piace mangiare il mio pranzo, quando riesco ad avere qualche soldo, mangiando quelle porzioni di pasta già pronta da riscaldare in un forno a microonde, quelle per la gente troppo indaffarata o sola per cucinarsi qualcosa, guardando le macchine che passano nelle strade. Gente che urla, piange, ride. Ci sono quelli che camminano con un bel sorriso stampato in viso e quelli che non riescono a togliersi quello sguardo truce e carico di rabbia alla ricerca di qualcuno con cui sfogarsi, qualcuno da aggredire.
Alle sette però si ritorna alla stazione, che ho bisogno di svagarmi un poco. A prendere il treno ore c’è qualche povero pazzo, una mamma con un bambino che fa i capricci, una coppia di fidanzati. Guardo le loro mani, unite più forte che mai, sperando che quell’istante di loro insieme non possa mai svanire. Sono costretti a salutarsi con un triste bacio, un sorriso tirato. Poi un abbraccio che non rende giustizia al loro amore, per niente. Quanto sono belli i giovani, così liberi di amare. 
Quando sono troppo stanco per continuare ad aggrapparmi alla vita degli altri capisco che è ora di girarsi e mettersi a dormire. Chissà chi sarò, mentre dormo. Chissà chi mi terrà la mano così forte come facevano quei due ragazzi, o che interrogazione dovrò affrontare domani. Ma la mia mente non ha la forza di ricordarlo quando suona di nuovo la campana alle 5 e 45, ma sono sicuro che quel sogno sia stato stupendo. La campana suona, suona sempre in ritardo. Suona sempre quando il treno è già arrivato alla stazione. Suona sempre per un motivo. Chissà chi diventerò oggi.

Antonio Mineo