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mercoledì 24 febbraio 2016

“Alla fine del pranzo venne servita la gelatina al rhum” - Il gattopardo raccontato dalle cameriere



… insomma, viene Gerlando, colla faccia grave che si mette per annunciare gli ospiti di rispetto, e mi dice:
“Sua Eccellenza ha gradit!” Dice proprio così, quel vecchio ubriacone, gradit.
Io lo so che significa: ora si mette a raccontarmi le facce che ha fatto il Principe mentre se lo mangiava, questo dolce che fa venire l’acquolina in bocca ai morti.
Si chiama Gelatina al rhum; a me me l’ ha insegnata personalmente Monsù Gaston, che l’ha imparata a Parigi. E’ facile. E che ci vuole? Zucchero, un po’ d’acqua, gelatina, e un bel bicchiere di quel rhum che sa di caramello e di sigaro.
Il Monsù Gaston dice che ci vuole anche la garniture.
Noi, da francese la facciamo siciliana, e ci mettiamo ciliegie candite e pistacchi secchi.
“Puzzi di cipol”, mi dice Gerlando. Mi scuncica sempre, ma gli rispondo: “tu puzzi di alcol, ogni giorno di più. Don Fabrizio si accorgerà che la scorta di rhum sta finendo.”
Il Principe, lui,  gli funziona  il gran naso che ha, apprezza gli odori buoni, si bea dei sapori e delle salse, gradisce in punta di forchetta ma è liccu.
Non sa da quali materie puzzolenti tiriamo fuori tutte le pietanze che serviamo. Arriva dalla caccia con le lepri nel carniere, e per ammorbidire le carni le lascio riposare il tempo giusto prima che cominci a puzzare di carogna. Insomma, tra il selvatico che aveva in vita e la carogna della morte c’è il momento in cui la lepre sa stare a tavola!
Faccio un altro esempio. Questa gelatina si fa con una mollame trasparente,  che il Monsù la chiama colla di pesce perché dice che viene dagli storrioni russi. Ma quali storrioni!  Lo so io da dove viene sta’ gelatina: ce la fa Piddu il porcaio. Che macera le cotenne di maiale - e pure le ossa e le cartilagini, ci mette. Filtra tutto e lo tiene al buio finché l’odore di grasso rancido se ne va. E poi viene una cosa buona. Come le rose del giardino, che senza letame non crescono così belle.
In cucina, ognuno coi suoi odori. Ci sono tutti i buoni profumi dei formaggi in dispensa, i primosale che sanno d’erba, i pecorini stagionati e legnosi, le ricotte quando è il suo tempo. In cucina ci può entrare un cieco affamato, e sa cosa mangiare!
La cucina dei poveri è povera e sincera: il pane è pane e il tumazzo è tumazzo, quando non se li prendono quel mangione del prete e quell’usuraio del campiere.
Invece, la cucina  dei ricchi è lavorata assai,  che non è più quello che era, e non è manco quello che ti sembra. Nel loro mondo tutto profuma, mentre attorno a noi il mondo quasi sempre puzza di roba marcia.
Nei loro palazzi, i pavimenti profumano di cera d’api legni di chissaddove e acqua di zagara. E per le strade sa Dio quanto letame!
I loro giardini hanno rose e magnolie e garofanini che sembrano fatti di pepe e cannella, tutte cose che pizzicano il naso. I loro cortili d’onore profumano di seria mortella che a me veramente ricorda il camposanto.
Ma le corti interne, dovete sentire come puzzano di orina e sterco di topi!
E pure i loro saloni dorati puzzano, di polvere vecchia e di crine ammuffito, me lo dice sempre Rosina, che si lamenta anche del tanfo dei càntari nelle camere da letto. Quelli mangiano profumi e rose, ma quando cacano…
Nei camini c’è puzza di zolfo e di diavolo. I poveri diavoli che abitano i bassi del palazzo di città puzzano sempre di sudore e di stracci sporchi; dalle bocche gli sale un puzzo di denti guasti, dagli stomaci un puzzo di aglio e cipolla e dai corpi viene una puzza di formaggio vecchio e caglio.
Le cucine, non dico per scherzo, le cucine sono sempre piene di intestini e avanzi di pesce e di carne, la balata di marmo là puzza di cavolo marcio, di grasso di bue e di sangue raggrumato, e non basta la liscivia a pulirlo.  Il forno puzza di fumo e fuliggine eppure ci escono i pasticci di Monsù, che sanno di cannella e sugo. Quei bei pasticci con la crosta lucida. Quella si fa col rosso d’uovo, e viene fuori un giallo scuro e lustro come oro vecchio, che ci potrebbero dorare le stanze.
Ma qua in cucina il profumo dura un attimo, il tempo di servire. Anche il profumo ci scippano!
A noi resta da pulire tutta questa spazzatura, giù a stricare pavimenti con soda e sapone molle, che per togliere quest’altra puzza lasciamo le cucine sempre aperte, perché solo l’aria sembra buona, qui. Quando è buona.
Le sguattere stricano tegami e pentole con  sapone a scaglie, quello di Marsiglia che sa di mare;  e  poi cenere e pietra pomice e fatica.
E i signori, là a bearsi dei pranzi. Ma dove credono di vivere?
Quando faccio il cappone alla creta, che me lo spiano tutti, lo pulisco dentro ben bene, lo infarcisco di umida pancetta col suo grasso dolce, di carota acidula, di cipolla, di salvia pelosa, di provocante maggiorana, di finocchietto e anice squillante; lo riempio bello gonfio e  lo lego. poi gli faccio una bara di creta stretta stretta, a poco a poco che neanche se ne accorge, , e lo metto in forno.
I nobili così sono, densi di buoni profumi, ma stretti nelle loro cerimonie, colle credenze e convinzioni ammuffite: bisogna lasciarli cuocere nel loro sugo (altezzoso).
Lui, il Principe, solo quando sentì il puzzo di carogna, come i fagiani lasciati a marcire appesi per le zampe, solo allora si agitò. Me l’ha raccontato Gerlando. La puzza dolciastra saliva da dietro il muro del giardino, ma lo scirocco impediva di arrivare all’origine. Ci vollero due giorni per  trovare quella carogna borbonica, che Dio lo maledica, sotto i belli limoni già pieni di zagara.
Dice Gerlando che solo allora il Principe capì che la sua casa era invasa; veramente mi disse “profanat”, e poi mi spiegò che significava.
Profanat.
Assieme a tutto il suo mondo, dice Gerlando, in una maniera che non si aspettava, abituato coi servi che obbediscono e col mondo che gira come vogliono loro.
La fine del mondo gli arrivò con l’aria, e lo prese per il naso. E che poteva fare, il Principe, contro l’aria?

Fabrizio Sapio