Google+

giovedì 25 febbraio 2016

Senso di appartenenza

Nel buio amico che mi accompagna, punteggiato dalle solitudini luminose delle luci opache dei lampioni, assaporo per la prima volta un senso di appartenenza. Mi riconosco alfine in quel cielo scuro, nelle vecchie mura e nel garrito dei gabbiani senza mare. 

Per la prima volta riesco a distinguere nei rumori delle strade i tratti di un'usata familiarità, nella quale vedere riflesse le tante me stesse che nel tempo hanno tracciato i solchi su cui ora viaggia spedita un'abitudine rassicurante.
Qualcosa è cambiato nel percorrere quei tratti, nel guardare i palazzi, le macchine e i tram: quel sentimento di frettolosa routine, che si esplica in uno spazio straniero senza mai divenirne padrone, ha ceduto il posto al largo dipanarsi, simile ad un intenso respiro, di una libertà che entra nei polmoni assieme al vento caldo di questo strano inverno, in cui sbiadisce il ricordo del mare e di quegli occhi di uno strano colore.
Fino ad oggi avevo passeggiato lungo le strade di questo caldo autunno, tenendo per mano un'assenza dolorosa che punge più forte in certi luoghi, in certi giorni, in certe pieghe amare che il sorriso assume. Il freddo timidamente rinchiude la mia tristezza nello sciarpone di lana, mentre le luci allegre del Natale schiariscono il buio delle strade severe, brulicanti di una folla estranea, cui tante volte mi sono mescolata per perdere me stessa, annegando in quella farragine di vite sconosciute, per scomparire almeno una volta dalla mia vista. 
Trovo sempre la folla accogliente come un mantello pietoso che avvolge la mia solitudine, ma in questo mio nuovo senso di libertà riesco a tenermi a galla senza affondare in quel mare di teste e voci che mi passano accanto, sfiorandomi con i pezzi della loro vita conclusa e perfetta, rapidi fotogrammi di un film, la cui trama si svela da un semplice gesto, da un fugace "Ci vediamo a casa" che si perde tra il cellulare e la tasca superiore della giacca, dal pianto di un bambino, da risate senza motivo. 
Una volta guardavo a queste scene con un'emozione speranzosa che mi scuoteva l'animo, quando lo sguardo si posava su qualche vita interessante, di cui provavo ad indovinare pensieri e azioni, per rubarne il calore. 
Ora quei volti passano dinanzi a me con incolore indifferenza, che non consente alcuna messa a fuoco: preferisco indugiare pigramente sul colore dei palazzi, assaggiando quelle fette di vita già vissute, senza provare più il bisogno di quel calore clandestino, quasi morboso nella sua voyeuristica contemplazione. Ora sono solo padri che tengono per mano i loro figli, sono cinquantenni tristi, avvocati stressati nei loro completi scuri, mamme nervose, signore eleganti con le labbra rifatte e imbalsamate nelle linee severe dei loro cappottini color pastello, incredibilmente puliti e lindi. 
La libertà è non interessarsi più a quella vita immaginata e sperata. Amo la concretezza di quelle esistenze concluse e perfette, cioè portate a compimento, di quelle vite che, non avendo più nulla da chiedere alla speranza, si vivono nello stanco succedersi di anni sempre uguali e senza sussulti, nelle quali accomodarsi tranquillamente come un vecchio divano. Un po' come la mia. 
A volte è la noia a prendere il sopravvento, eppure, stranamente, essa riesce a stemperare man mano il vuoto di un'indefinibile assenza, che neppure l'arancino di quella rosticceria siciliana è in grado di colmare. 
E non lo so se è la noia, oppure il ritmico movimento della masticazione, so solo che adesso, man mano che affondo le labbra nell'impasto morbido e caldo e guardo gli enormi stormi che scuriscono il cielo, mi accorgo che quell'indefinibile assenza si è sistemata in un angolo, come quegli ingombranti scatoloni pieni di cose da buttare, dalle quali non ci si vorrebbe separare, ma che la necessità costringe a non poter portare con sé.

Annalisa Scassandra