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lunedì 11 aprile 2016

Trecce e taralle (e qualche pidocchio)

Quando  traslocammo dalla nostra terza casa avevo già finito la seconda elementare; mia sorella aveva un fidanzato e una sera lui portò nella nostra nuova casa i suoi genitori. Mia madre offrì loro un liquore alla cannella e uno alla menta; mangiammo pasticcini alla mandorla e mia sorella ricevette un anello d’oro bianco con delle piccole pietre trasparenti .
Io dovetti cambiare scuola, lasciai il palazzo delle suore vincenziane, la scuola più ambita del paese e cominciai a frequentare  alla scuola pubblica, in  quel quartiere tanto affollato. La mattina mentre andavo a scuola passavo davanti alle botteghe che vendevano di tutto, dalla frutta ai quaderni;  c’era un via vai frenetico di bambini che compravano  qualche leccornia da mangiare a scuola; io amavo le cotognate e le liquirizie, certi giorni prendevo una liquirizia e altri giorni la cotognata, mai tutt’e due le cose, come avrei voluto; a volte prendevo solo qualche animaletto di biscotto perché bastavano solo cinque lire per averne cinque, prendevo sempre il cane e il coniglio, qualche volta anche la giraffa e l’elefante. Ora portavo il grembiule nero con un fiocco bianco; invece nella scuola delle suore tutti i bambini erano vestiti di bianco e portavano il fiocco blu, o rosa. In quella scuola quando a fine trimestre avevi buoni voti come premio ti veniva messa una fascia tricolore che portavi addosso tutto il giorno; una volta io tenni la fascia fino a quando andai a letto; quel pomeriggio ritardai a fare i compiti perché rimasi in giro dopo essere andata a mostrare la fascia a mia nonna. La nonna Rosa mi sorrise e mi portò su nella stanza  da letto che odorava di pipì, aprì l’armadio e mi diede una  delle sue taralle con la glassa e mi chiese di recitarle una poesia; recitai mentre con il pollice e l’indice tenevo sollevati gli angoli del mio vestito , la nonna si complimentò con me ma poi mi disse di tenere il vestito giù; io ne fui risentita. Anche nella nuova scuola si studiavano le poesie a memoria e le recitavamo in classe dopo aver detto le preghiere e prima che la maestra cominciasse la lezione. Una volta a settimana la maestra,  una donna bassa e cicciottella che veniva a scuola con una cinquecento Fiat, ispezionava le nostre teste per accertarsi che non avessimo i pidocchi. Mia madre un pomeriggio mi portò da una signora che con due forbiciate fece cadere a terra le mie trecce, non piansi, perché mia madre mi disse che la testa deve contenere tante cose per poter  pensare e che era meglio tenerla leggera, così la signora mi confezionò  un nuovo taglio di capelli a caschetto,  allora molto di moda; anche molte mie compagne portavano il caschetto, invece una aveva  i capelli lunghi  e li teneva sciolti sulle spalle, i suoi capelli si muovevano liberi anche sugli occhi -  forse era anche per questo che non imparava  le lezioni e non faceva mai bene i compiti, pensavo  -  mi piacevano tanto i suoi capelli, avevano uno strano odore, erano  lisci e dritti mentre i miei erano crespi e gonfi e non c’era modo di farli stare giù; spesso  la sera mia madre li spazzolava e poi me li stringeva in un fazzoletto e poi dormivo  male; la mattina non appena uscivo da casa i miei capelli prendevano aria e si gonfiavano come una mongolfiera, rimpiangevo le mie trecce ed invidiavo i capelli di Letizia che erano lisci, unti e odoravano di canfora.

Rosa La Camera