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giovedì 21 aprile 2016

Un nome


Non so se lo avrei chiamato padre o madre, non so neppure se avrei avuto più voce. Adesso la neve sui davanzali ovattava i suoni e gli uccelli avevano perduto il nido.
Lasciavamo impronte sulle strade, minuscole, io ero come un cristallo di ghiaccio, invisibile all’occhio, e non ricordavo di avere un nome o se l’avessi soltanto sognato. Così il gesso si incrinò e mi spezzai le unghie, al cuore ci avrebbero pensato i cattivi maestri e i corvi che stanno su entrambe le spalle.


Dove sarei mai potuta andare, senza un nome, una foto, un ricordo netto? Sì, forse avevo soltanto sognato. E fu questa la ragione per cui mi misi a correre fino a non avere più fiato e a ricoprire il viso di brina che bloccava i miei lineamenti in un’età immobile. E fu per questa e almeno altre diciassette ragioni che tutto mi incuteva paura. Quando frantumarono le mie certezze sapevo che non ne avrei avute altre, e fui certa che anche mia madre avesse scordato il mio nome perché non aveva avuto più occasione di pronunciarlo. Ne avrei inventato uno per un sentiero, un ponte, un ramo, per il bordo di una fontana ghiacciata.
Cominciavo a rammentare altre parole, altre voci nella penombra quando non distratta dai ricordi, né dai dissapori umani potevo essere qualcuno.
E allora squadernavo fogli, li strappavo, venivano via fitti e scuri come foglie secche, e li riempivo come si riempiono barattoli di monete che un giorno comprerai un biglietto per uno spettacolo, un viaggio, ma alla fine della pagina quale nome avrei scritto?
Il primo ricordo era una valigia blu, e io là a guisa di bagaglio, di abito ripiegato, avrei potuto essere qualsiasi cosa, ma mi avevano mentito.
Che nome dare alla neve e a una promessa? Intuivo che l’amore poteva stare sotto le suole, tra i capelli raccolti nel berretto, nelle braccia spaurite di un volto nuovo e austero.
Così in piedi, oppure sdraiata a pancia sotto, fino a non avere più la forza di pensare, cercando di scrollarmi di dosso quei corvi e la curiosità per un luogo che non mi avrebbe salvato, né dalle ombre dei cancelli né dalla carta vetrata. No, non avevo sognato, sentivo la musica, le luci attraverso i vetri, e la gentilezza io sapevo che esisteva, incuneata tra i denti di una cerniera, tra i cardini di una finestra che qualcuno avrebbe aperto, prima o poi.

Adele Musso