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mercoledì 11 maggio 2016

La scorciatoia

La primavera era arrivata calda, quasi irriconoscibile, e Matilda faticò, quel pomeriggio, ad indossare il vestito blu dell’anno prima; si osservò allo specchio delusa, ma alla fine decise che sarebbe andato bene lo stesso, l’orologio sul comò le diceva che era già in ritardo; si sistemò i capelli con le mani, mise il rossetto – cercò fra le sue cose, un colore chiaro, un rosa argentato, che si adattava bene al vestito. Le era sempre piaciuto quel momento che precedeva le sue passeggiate o gli incontri, (anche da ragazza si attardava fra i vestiti nell’armadio, lo specchio del bagno, le chiacchiere con sua madre – quella curiosa che non la finiva mai di chiedere. La vita di Matilda diventava una specie di prolungamento della sua. Le compagne di scuola le conosceva tutte, i posti che frequentava la incuriosivano, gli incontri per discutere e progettare, era contenta di vedere la figlia dentro il mondo, nel suo traffico, mentre lei restava in casa a ricordare) - si aggirava ancora scalza per casa mentre le sue amiche a quell’ora si trovavano già in bella mise al tavolo della pasticceria - anche loro avrebbero indossato vestiti leggeri e sapeva già che avrebbero mangiato gelati e bevuto qualcuno di quei liquori dolci che le avrebbe fatto ridere banalmente.

Le restava solo di raccogliere le chiavi di casa, il resto l’aveva già preparato sul letto in bella vista: il foulard (che poteva rinfrescare dopo il tramonto) il libro da restituire a Claudia, il portamonete e gli occhiali per leggere (che quella era una eventualità che non poteva proprio escludere). Sbirciò fuori per accertarsi che lui non l’avesse lasciata a piedi anche stavolta – la macchina era parcheggiata sull’altro lato della strada (piena di polvere e chiazze di ruggine che la facevano sembrare un pezzo d'antiquariato se non fosse stato che era un modello di utilitaria come se ne vedevano tanti).
Fuori trovò il solito traffico del sabato pomeriggio; ma lei imboccò subito la scorciatoia che le evitava le soste ai semafori e le file di macchine nelle strade del centro. Salendo in macchina sentì uno scricchiolio di ossa, il vestito le salì sulle cosce, le guardò per un attimo ma si concentrò sulla guida, tastò con una mano le ginocchia, erano gonfie; rallentò e controllò sullo specchietto retrovisore di non aver qualcuno incollato al paraurti, ne approfittò per darsi un’occhiata alle labbra, non volle vedere nient’altro - le erano sempre piaciute le sue labbra, e sapeva che piacevano pure a lui  - le strinse per compattare il rossetto. 
La donna procedeva sulla strada, davanti alla sua macchina, dondolando la coda bionda, reggeva due buste di plastica con le braccia dritte che sembravano due bastoni, le buste toccavano quasi l’asfalto, era piccola di statura; Matilda la riconobbe subito, la intravedeva ogni tanto su quella strada mentre andava verso casa; era sempre a piedi, tornava dal lavoro. Matilda rallentò e abbassò il finestrino – sali – le urlò - ti accompagno, sono di strada. Lei mise la testa dentro il finestrino e la riconobbe, girò dietro la macchina, Matilda si chinò e le aprì lo sportello, la donna si sedette sistemandosi le borse di plastica sui piedi, si sorrisero come fossero amiche. Matilda la trovò vecchia, da così vicino, la magrezza era quella che le conosceva, ma ora le ossa creavano sporgenze pericolose perfino sulle guance e sul collo - sui gomiti aveva delle ferite. I capelli tirati sulla nuca mettevano in mostra le rughe profonde delle tempie.  E il viso, tutto, improvvisamente si bucò e al posto degli occhi celesti vide due fosse umide, e al posto della bocca, una voragine di denti neri e malati. 
Come stai? le chiese, come sta Paola? Vive ancora a Torino? Sì, ma non ci parliamo, masticò, non so io, ha tre figli, ma non ci sentiamo mai, noi. Io non la chiamo più, non andiamo d’accordo. Sapeva già queste cose, Matilda - Paola detestava sua madre, l’accusava di essersi messa con un vecchio dopo che suo padre l’aveva lasciata, quell’uomo la sfruttava; lei avrebbe preferito che fossero rimaste da sole, loro due senza estranei attorno, in quella casa non voleva starci, se ne andò via ancora prima della maggiore età. E tu... quell’uomo che sta con te, stava male. Lui è morto, io vivo con i miei figli maschi. Dove? A casa tua? Sono tutti con te, ancora, con le loro famiglie? Sì, non hanno lavoro, io li aiuto e stanno da me. Mi sembri stanca, quando smetterai di lavorare, tu lavori sempre, vero? Ora hai una pensione, dovresti mandarli tutti via e goderti un po’ di riposo nella tua casa; è tua la casa, vero? Devo aiutarli, che devo fare? Devi smetterla, lavori da quando eri una bambina, ora basta, devi riposarti. Dove lavori per ora? Curo una coppia di anziani, la figlia è amica di mia sorella, lei cucina e io faccio i lavori. Quando ci vai? Tutti i giorni, sto lì fino alle sei. Quanto di danno? Poco, ma che posso fare? Quanto di danno? Duecento. Duecento euro al mese. Matilda ora procede lentamente, svolta nella strada dove vive lei, non le dice niente, rallenta e si accosta – sono quasi arrivate - vorrebbe sgridarla come faceva con Paola, sua figlia le somigliava molto, ma ha fatto bene ad andar via, vorrebbe dirglielo, le vorrebbe urlare in faccia che è una stupida, una schiava, peggio di una puttana; ma a lei questo non può dirlo. Si gira per osservarla, lei si arrotola i manici del sacchetto attorno alle dita. Smettila, devi smetterla! (vorrebbe chiamarla per nome ma non riesce a ricordare come si chiama). Questo non è lavorare, mandali tutti via e resta a casa, ti meriti di stare un po’ meglio di ora. Io lo so come finirà, ti terranno a lavorare fino a quando non sputerai sangue. 
Sono sulla strada sterrata e si intravedono le case (Matilda in quella casa sempre piena di bambini e di uomini c’era già stata, il tanfo allora le aveva persino impedito di respirare e aveva parlato rapidamente per fare prima; quella volta, era andata a cercare Paola per riportarla a scuola). La donna scende veloce dalla macchina, mentre Matilda ripete ossessivamente: mandali via, riposati.
Grazie, Matilda, mi riposerò quando morirò, e sorride; se ne va e non si gira più neanche per salutarla.

Rosa La Camera