Google+

lunedì 21 novembre 2016

L'auto

Era buio e non riusciva a ricordare dove avesse parcheggiato l’auto.
Se la saranno fregata, aveva pensato con rabbia e rassegnazione, era andato tutto storto, tutto, ogni tanto si guardava alle spalle, ma i passi che risuonavano erano soltanto i suoi. Le facevano male anche i piedi, si stringeva l’impermeabile addosso, sollevava la tracolla della borsa che continuava a scivolare verso il basso. Ormai il danno era fatto, le era piovuta dentro la bile e si era infradiciato ogni organo interno. Si sentiva sporca. Era sporca.
Lui era andato via, e mentre parlava lei si era sporcata ancora di più, si era fissata con i suoi capelli, li aveva tinti? Ma quando? Era davvero così tanto tempo che non lo guardava, sì, lo guardava, ma non lo vedeva. E mentre lui le tirava contro il disprezzo lei non ascoltava gli guardava la testa, i capelli.
Era stato freddo, tagliente come la carta, e senza accorgersene si era ritrovata a pezzi. Tagli sottili che sanguinano.
Doveva aspettarselo, nessun uomo può accettare passivamente di passare per lo zimbello di un gruppo specie se in quel gruppo ci vive e ci deve necessariamente tornare. Avevano percorso un pezzo di strada insieme, poi lui si era dissolto nel nero della strada, dei marciapiedi del buio, che risaliva dai tombini e che annebbiava la vista e i sensi. Maledetta auto nera, dove sei? E il telefono, non funzionava, batteria scarica, tutto scarico.
Cosa credevi, che gli altri tacessero? le aveva detto guardandola negli occhi, lei i suoi li aveva abbassati, simulando una vergogna che non provava fino in fondo. Cercava di recuperare terreno, ma lui era un muro.
Era arrivata alla festa da sola, lui ancora al lavoro, non era un tipo puntuale e non gliene importava niente, al contrario di lei che arrivava in anticipo. C’erano parecchie persone, conosceva tutti, non passava inosservata, preferiva ignorare le occhiate e fingere di non capire che alcuni sguardi non erano disinteressati. Se ne fotteva. Uomini.
Cosa le aveva impedito questa volta di lasciare che lui indugiasse sul suo seno quell’istante in più, che aveva fatto deviare il corso delle cose. Non lo aveva mai considerato un uomo attraente, non lo aveva mai considerato. Lei teneva le distanze, non flirtava neppure per divertirsi un po’, figurarsi  con gli amici del marito. E invece, quello, quel tipo che aveva una moglie quasi trasparente e, diciamocelo, niente di ché, prima l’aveva aiutata quando un moscerino o forse delle ciglia le erano finiti dentro l’occhio destro; le aveva detto, ti aiuto, stai lacrimando, le distanze si erano accorciate tanto, che lei ne aveva avvertito l’odore, e così lo aveva visto per la prima volta, non è male, ti macchierai sotto gli occhi, adesso che lacrimi, le aveva asciugato, giusto sotto la riga inferiore, il mascara sbavato. Un fazzolettino di carta, un tocco lieve. I loro visi erano vicinissimi e lei aveva notato, nonostante la vista offuscata, gli occhi di lui e la gentilezza, che è quella che ti fotte. La fronte ampia, e il sorriso, da quello la gentilezza era uscita, come un fiume che tracima. Si era lasciata bagnare.
Sentiva altri sguardi addosso, li aveva ignorati, era presa dalla improvvisa intimità che si era creata tra loro. Una voce d’allarme le stava urlando: attenta! Aveva staccato quell’interruttore, la voce si era zittita. Stai per annegare e trascinare la tua vita con te. Aveva bevuto.
Cosa pensavi, che i miei amici sarebbero stati zitti? Amici, pensò lei, non abbiamo amici, solo delatori e invidiosi, ma non lo disse ad alta voce. Provò invece a negare l’evidenza, non è successo nulla, almeno niente di importante, la gente immagina e inventa quando non sa come passare il tempo. La gente è cattiva e tu lo sai.
Non fare la furba con me, le aveva risposto con il mento che gli tremava. Ma era stato un attimo, era come se lui questo momento lo temesse, lo aspettasse e avesse già preparato il discorso da farle. Era troppo sbrigativo, razionale. Era un uomo.
L’altro aveva allungato la mano e lei non lo aveva fermato, ma dove aveva la testa?
Spenta. Togliamoci da qui.
Hai paura che ci sentano? Non avevi la stessa preoccupazione mentre lui ti toccava.
Era stato un gesto che nessuno aveva stabilito, e neppure impedito. Soltanto dopo un tempo che non si poteva più rimediare, aveva spostato la mano di lui dal suo seno destro, si era allontanata e aveva preso un bicchiere di vino, aveva la gola secca. Lucida, sebbene le luci fossero stordenti e il vociare dei presenti fosse sovrastato dalla musica. Aveva sentito la disapprovazione, le era calata addosso come la carta che avvolge il pesce al mercato, puzzava. E si trascinava appresso la rabbia di coloro che avrebbero voluto essere al posto dell’altro e che adesso potevano vendicarsi.
Quando era arrivato suo marito, lei non lo aveva neppure salutato. Ignaro, non per molto, le cattive notizie viaggiano rapide. Così lui non si era tolto neppure la giacca di dosso, che l’aveva spinta fuori, senza scenate; lei lo aveva seguito e poi distanze e  posizioni erano mutate. Lui, dietro di lei, spinta verso la strada, via da quel luogo, lontano dai commenti e da quell’altro che le mani adesso le aveva riposte in tasca e sarebbe stato giustificato dagli amici. Uomini.
Le donne presenti, mute, cieche, sorde, non stava capitando loro, che fortuna. Fino che nel loro cervello non fosse scattato quel tac che sveglia e ti ricorda che sei ancora viva.
Dove cazzo è la macchina? E se mi accade qualcosa? Ormai a lui non importa più, mi ha restituito al mittente, come cambiano le prospettive, sei la persona più importante della vita di qualcuno fino a che un altro non ti infila lo sguardo dentro un occhio infiammato o ti sfiora la pelle attraverso un maglione e un impermeabile beige. E ti ricorda che sei una persona viva. Una stronza.
Adesso potrei tornare anche a piedi, rompermi un tacco e piangere per la mia auto rubata, e lui l’altro, come cazzo che si chiama, non ho neppure il suo numero, e non mi importa. Eccola, ferma, immobile, sola, non se l’è fottuta nessuno.

Adele Musso