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mercoledì 25 gennaio 2017

Pastorale Americana, recensione


Di Philip Roth avevo letto Professore di desiderio, avevo scoperto che la letteratura americana era andata molto avanti e che questo scrittore usava il bisturi senza timore, era una specie di vivisezionista dell’anima e in quel caso del desiderio. La stessa cosa poi gli ho visto fare in quest’altro romanzo – Pastorale Americana, libro uscito in Italia nel 1998, lo stesso anno in cui vinse il premio Pulitzer per la narrativa.
In queste settimane si è molto riparlato del libro, da quando è uscito nelle sale il film con lo stesso titolo, ma del film non so altro che quello che si dice in giro e cioè che non è riuscito a eguagliare il romanzo, allora mi è venuto il desiderio di parlarne.
Ho visto in questo romanzo un Roth realista e visionario allo stesso tempo, uno che scava e ricuce provando a far ricombaciare i lembi di quello che sembra definitivamente squarciato e irrecuperabile, mi riferisco alla società americana e alle sue conseguenze; mi riferisco a quel fenomeno del terrorismo autolesionista che negli anni sessanta scoppiò in alcune province americane durante la guerra in Vietnam (e che ho l’impressione di rivedere in quegli episodi di assalto di scuole o centri commerciali da parte di alcuni individui, e che compaiono inseriti fra i fatti di cronaca). 

Come Roth ci racconta, quel fenomeno servì da alibi a tanti imprenditori e capitalisti americani per avviare nuove imprese in Asia, addirittura nell’Europa dell’est ancora prima della caduta del muro….e poi in Cina (trenta, ma anche quarant'anni fa, buona parte delle targhette negli abiti e nelle scarpe americane portavano già il “made in China”), liberi dai vincoli sindacali e sociali che si erano affermati in seguito al raggiungimento di maggiori garanzie per gli operai. L’alibi aveva una sua ragion d’essere, secondo l’autore, molti quartieri erano stati presi letteralmente d’assalto dai rivoltosi. La chiusura delle fabbriche lasciò tantissimi operai americani, per lo più neri e sudamericani, senza lavoro e senza prospettive; quei territori divennero deserti abitati da derelitti, vecchi e giovani che si aggiravano come dannati, esseri umani resi irriconoscibili, dediti al crimine, il furto in massima parte.
La storia si avvolge attorno allo “Svedese” che eredita dal padre ebreo, non solo il mestiere di guantaio, a cui viene addestrato fin da bambino, e di imprenditore, ma anche un’eredità che alla seconda generazione si scopre già divorata dal suo stesso male, finendo nella spirale del profitto crescente e inarrestabile. Sembra però che né il padre né il figlio abbiano consapevolezza di questo. Cosa c’era di male, infatti, nel voler ricavare profitto da una impresa che era stata costruita con il sacrificio di una intera vita? Si era avvalsa della “collaborazione” di tanti uomini e di tante donne  che in cambio chiedevano solo di poter mantenere dignitosamente i propri figli e magari di farli studiare e poi diventare migliori di loro..
Niente riesce a svelare il nodo che inceppa questo bellissimo progetto e l’attentato all’ufficio postale segna solo l’arresto della serenità dello Svedese che vive l’accaduto come una fatto personale, suo e di sua moglie, non come il punto di rottura di questa linearità impossibile tra passato e presente, tra sogno e realtà, tra lavoro e profitto.
L’attentato riuscito viene preparato ed eseguito da Meredith, erede e alterego del protagonista, l’anima nera che lui non era stato capace di tirare fuori e che invece aveva trovato posto nella personalità di sua figlia.
L’attentato segna la caduta delle illusioni, in quanto di certezze non si possa parlare, del protagonista ma anche di quel Continente, delle sue prerogative di paeseguidadelmondo nella missione di progresso che di cui si era autoinvestita.
Frutto di un autoinganno che Philip Roth contribuisce ad evidenziare, se non bastasse guardare la realtà, attraverso la finzione narrativa.
Emerge comunque, nel contempo, la mancanza di una volontà negativa, l’autore sembra crederci; quello che mi pare di vedere è invece l’incapacità di vedere lontano, profeticamente, e questo è già molto grave, visto che ci muoviamo nello sfondo dell’ebraismo americano; a noi sembra che nasca da quella fonte l’illusione, da quella radice che una bomba ha voluto sradicare, per mano della sua stessa progenie, la figlia che pare essere nata con questa nuova missione: autoannientamento.



Rosa La Camera