Cerchiamo quell’ago nel
comò, era la frase che diceva Agnese la sarta del paese ogni volta che sua
figlia Lucia si lasciava cadere dalle mani l’intera scatolina degli aghi, ed
erano ore di ricerca con la calamita dentro i cassetti e sotto il comò, tra le
fughe delle piastrelle. Agnese non ci stava più tanto con la testa, da una vita
la usava come puntaspilli, e poi si era anche stufata di ripetere alla figlia che
avrebbe dovuto sposarsi, senza nessun risultato.
Lucia era mediamente
giovanile nonostante i cinquanta passati, timorata a tal punto da non avere mai
accarezzato l’idea di accoppiarsi carnalmente con chicchessìa, soprattutto dopo
aver sentito dire che alcune volte il concepimento può verificarsi in modo
inaspettato, tramite un bacio, un’accappatoio scambiato, una nuotata nella piscina
comunale, o addirittura per mezzo della divina provvidenza.
In verità un moroso lo
aveva avuto in gioventù, ma l’azione più spinta che si era concessa era stata
quella di chiamarlo per nome, dandogli sfacciatamente del tu. O tu, Renzo,
diceva Lucia, ma Renzo era un ragazzo timido e mai aveva osato risponderle.
Poca speranza di
recuperare il tempo perduto, la ragazza si sarebbe potuta sistemare, con
l’aiuto della provvidenza, e invece aveva continuato a chiamare il suo Renzo e
nel frattempo s’era maturata. Spasimanti per lei ce n’erano stati diversi e
anche di buon partito: Rodrigo per esempio sarebbe stato ottimo, ma
Lucia lo aveva rifiutato come se avesse la peste.
La vecchia sarta guardava
la figlia, che ormai non era propriamente un fiore, e quel Renzo che con gli
anni si era fatto ancora più taciturno, pareva non ci fossero soluzioni, doveva
fare qualcosa.
Una mattina Agnese uscì di
casa con fare risoluto e si avviò in parrocchia. Chiese alla perpetua di
parlare con don Abbondio, dal citofono la vecchia rispose seccamente di non
disturbare perché il curato era malato. Agnese non sarebbe mai tornata indietro
sui suoi passi e continuò a suonare il campanello. Chi era costui che
citofonava? chiese il don Abbondio affacciandosi dalla finestra. Agnese diede
fiato ai polmoni e gridò Signor curato, vengo per dirle che mia figlia Lucia è
incinta, così da farlo sentire a tutto il vicinato. Detto questo se ne tornò a
casa e aspettò che i fatti maturassero, mentre don Abbondio aveva di nuovo i
brividi.
Questo matrimonio si deve
fare, dicevano i compaesani al bar, Bravi, rispondevano i presenti. No, diceva
un altro, non si può essere sicuri del padre, e se non fosse Renzo? Bravo, gli
rispondevano. È scandaloso, il nostro paese non può tollerare una cosa del
genere, quando uno guarda una donna poi la deve sposare, è una questione
d’onore, Bravo, rispondevano. Insomma, una sommossa generale.
Organizzare il matrimonio riparatore
risultò maledettamente complicato, fu necessario invitare un mucchio di
personaggi sparsi qua e là tra Milano, Monza, Bergamo. Fu comunque celebrato in
grande pompa da don Abbondio, finalmente curato e guarito, Lucia con abito
bianco su misura, Renzo sempre più timido e riservato, paggetti e damigiane.
Lucia e Renzo trascorsero
la luna di miele in riva all’ago, un viaggio lungo e noioso, dato che il
Manzoni a tutto aveva pensato tranne che a un mezzo di trasporto che non fosse
il batell. Lucia era inquieta, per tutto il tempo si guardò bene
dall’avvicinarsi troppo, aveva paura di pungersi e rovinare tutto.
Fu al ritorno che chiamò a
sé Renzo, dandogli del tu come un tempo, gli confessò che la gravidanza era
tutta una messa in scena, sua madre l’aveva costretta a nascondere un
palloncino gonfio d’aria sotto il vestito. Renzo, a quelle parole, perse la
timidezza e s’intenerì, accarezzò la pancia di Lucia, ringraziò la provvidenza
per lo scampato pericolo, ma tale fu l’ardore che il palloncino scoppiò, spargendo
il disappunto e la peste tra i compaesani delusi.
Ingredienti:
Una madre stufa marcia
Una ragazza timorata
attempata
Un ragazzo timoroso maturo
La provvidenza
L’ago
(Raimondo Quagliana -
Alessandro Manzoni)