E poi si torna – in aereo, in auto, in treno –, esitazioni, preparativi, gli abiti, le scarpe (te le studieranno – la fattura, le cuciture, le screpolature della tomaia, le suole). Ti guardi allo specchio e già li senti: passano per tutti gli anni, eri un bel bambino, quante ne combinavi (non lo diranno ma tu lo sai, penseranno che sei invecchiato male, la pancia, come se a loro non spuntassero capelli bianchi, rughe). E pretenderanno che tu abbia avuto successo: se vai via è perché il paese non ti ha offerto nulla. Lo hai avuto?
Lo hanno sempre detto, per riuscire bisogna andare via – scappa, vatinni, non tornare, perché qui non c'è niente, scappa e dimentica da dove sei partito, scappa, questo è un paese morto.
Non sopportano vedere chi torna con le scarpe belle, meglio indossarne un paio consumate, meglio se hai fallito - li fai contenti se indosserai scarpe brutte, no, scarpe risuolate, con le teste dei chiodi che fanno capolino.
Chi lascia la terra dove è nato fa uno sgarro a chi rimane – spetta a loro vedere vuoto il posto che occupavi.
Arriverò e neanche mi saluteranno, mi chiederanno subito che lavoro faccio, dove abito, quante stanze ha la mia casa, che auto ho. I più arditi oseranno, quanto guadagni?, e tu non gli rispondi, ti svincoli, loro lo capiscono, se non lo dici allora devono essere tanti, assai, troppi per essere detti, una mortificazione, allora sei diventato ricco, una persona raffinata – cambieranno territorio di conversazione (tutti ruffiani, in questo caso), ti ricordi di quando eri piccolo?
Sì, mi ricordo.
E rivedi la piazza, le strade sterrate, i visi di quelli che spiavi, quel che resta del bar, del cinema (quella sera che sull'intonaco di una casa spuntò un film) -, e non ne vale la pena, tempo perso di cui non puoi fare a meno.
E intanto torni.
Giorgio D'Amato