La corda
che ho stretta attorno al collo pesa, mi da fastidio. E’ un macigno. Lo è stato
per molti, ma adesso lo è per me. E’ l’unica cosa che mi ha tenuto in vita e al
tempo stesso quella che potrebbe togliermela da un momento all’altro, appena
quei cani iniziano a tirare. Il fiato è pesante. Sento
raschiarmi la gola anche se non hanno già iniziato a tirare, lo so
cosa mi aspetta.
Sento nei polsi la scavatura delle corde strettissime, che quasi mi fanno
perdere la sensibilità alle mani. Le stringo più forti che mai, li strangolerei
io di persona questi traditori. La rabbia è incontenibile. Non mi arrenderò mai
davanti a loro. Vorrei urlare, strapparmi i vestiti, rompere questa sedia. Ho
voglia di fargliela pagare, a quei traditori. Mi hanno usato come un pupiddu.
Stupido e immobile nelle loro mani. Vendetta. Se potessi essere io a
stringere la corda attorno al loro collo. A guardare nei loro occhi la vita che
scappa via dall’ammasso di carne ed ossa.
Ma la situazione è ben diversa. Immobilizzato, senza alcun potere, sono
diventato merce nelle loro mani. Sono carne da macello. Sono di troppo, per
Cosa Nostra.
Tutto quello che ho fatto l’ho fatto per proteggere la mia famiglia, le persone
che amo. Non mi pento di niente nella mia vita, ma adesso ho paura.
Paura che dopo la mia morte non ci sia nessuna altra vita, niente di niente.
Solo un eterno e profondo silenzio. Ho paura che dopo la mia morte non ci sarà
una vita per i miei figli, per mia moglie.
Finiu Fifuzzu.
Filippo Marchese non lo sapeva ma era già un cristiano morto ammazzato quando se lo
portarono in un magazzino a San Lorenzo, dove 'un ti viri nuddu. Gli gonfiarono
la faccia a legnate, buttava più sangue di un crasto. Lo hanno ridotto una
pietà. Manco u signu ‘ra cruci l’ha salvato.
Dopo che l’hanno scannato, lo legano in quella seggia di legno che di come
faceva a poco si spaccava. Gli mettono una corda fina fina al collo e poi uno
r’un lato e uno dall’altro. Scarpuzzedda lo talìa in faccia e ride. Iniziano a
tirare. Filippo Marchese addiventa rosso come un pomodoro. La faccia piena di
sangue, lui incazzato come una bestia. Si mette a scalpitare come un cavallo.
Poi apre la bocca, come per cercare ancora aria.
A mmìa?
Stramazza. Se lo caricano di peso e lo buttano a terra. Poi vanno a scoprire la
vasca che c’aveva un fuoco addumatu sotto. Inizia a bollire e lo buttano
dentro, come si fa con la pasta. Come si dice, carne e sucu e finiu 'u vattiu.
Di Filippo Marchese non rimangono nemmeno i denti. L’odore, però sì, faceva
feto Filippo Marchese…
Da qualche parte ‘u curtu guardava gli alberi - stavano morendo, uno dopo l’altro. Questa
malattia che ci si attaccò quest’anno non ne ha fatto crescere nemmeno uno. Agli
alberi di Corleone questo non è successo mai. Mai una mala annata da quando li
coltiva lui. Perché la campagna è la sua passione. E’ dove si passa il tempo
libero, a curare esseri viventi. Almeno le piante danno soddisfazioni e non le
devi eliminare.
‘U curtu quel giorno doveva staccare le erbacce. Quelle che crescono sulle
radici delle piante buone, quelle che rubano l’acqua, la linfa, la vita. Quelle
che sono di troppo. Iniziò a zappare girando attorno ad un albero di limoni,
che di soddisfazioni gliene aveva date tante. I limoni sembravano d’oro. Ci
portavano sapore al pesce fatto bollito.
Poi le arance. Che belle, le arance di Corleone. Più dolci dello zucchero,
faceva una fiura quando le metteva a tavola, tutti entusiasti. Facevano buoni
tutti, scontenti nessuno. Buone, le arance dello zio Totò.
Quando si calò per iniziare
a zappare, però notò una cosa. Una cosa strana, mai l’aveva vista. Il tronco
dell’albero perdeva colore. Era giallo e verde, mischiati. Era il colore della
morte. Stacca una foglia e la annusa, ma non sente nulla. La foglia poco poco
si sgretola nelle sue mani, ne era rimasta soltanto la bellezza e non più l’odore.
Si alza in punta di piedi per scegliere un’arancia da prendere. Quella più in
alto di tutti, che se era mangiata dagli uccelli significa che almeno il sapore
era buono. La sbuccia con il coltello che non gli manca mai dalla tasca e la
assaggia.
La sputò - albero corrotto. Quell’albero doveva essere eliminato, non serviva
più a nessuno. L’operazione gli prese tutto il pomeriggio e dovette occuparsene
lui di persona. Non lasciò nulla. Nemmeno le radici. L’albero andava distrutto,
il legno macinato. Così non ne sarebbe rimasto più nemmeno il ricordo. Appena
finì il lavoro si cambiò la camicia. Mentre usciva dalla campagna vide arrivare
una macchina. Era quella di Scarpuzza. Prese una mela dall’albero più giovane
che aveva nella campagna.
Perciò,come finì?
‘Zu Totò non si deve preoccupare. Filippo Marchese è un uomo morto e non ne
rimane nemmeno il tanfo.
Bene, bravo. Nemmeno il tanfo deve rimanere.
Antonio Mineo