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venerdì 13 febbraio 2015

Parliamo di cosa all’amore somiglia

1#
“Maria, lasciati che ti sposo io!!”. L’abbiamo letta per anni questa frase e l‘avevamo commentata, facendoci delle domande e immaginandoci l’esito di quella storia. Era scritta con la vernice nera sul muro di una casa che dava sulla strada che attraversavamo quasi tutti i giorni; ed era raro che mio marito non la ripetesse, mostrando soddisfazione. Gli era piaciuta; lui che è sintetico ed essenziale deve averla trovata risolutiva. Lui, infatti, che è di poche parole (half-word è il suo motto) qualche tempo prima, per dirmi “ti amo, mi piace stare con te, e tu? con me? vorrei che tu fossi la madre dei miei figli”, mi aveva detto invece:“li facciamo due bambini?”. 


E non c’è bisogno di aggiungere che una frase così non mi convinse subito. Quello che trovai assolutamente inaccettabile, non fu certo la proposta, che non era affatto strana, detta da uno che aveva già superato la trentina da un pezzo – quello che non mi convinse fu il “due”. Mi spiegò in seguito che non aveva voluto sbilanciarsi dicendo “tre” o “quattro”, ma che potevamo pensarci, una volta che la cosa fosse andata a buon fine. Non dico tutto di questa storia se non aggiungo che dopo un po’ di tempo, sotto quella scritta, ne venne aggiunta un’altra, stavolta con una vernice rossa, “stupitu, ti cunsumi!”. Noi eravamo già sposati da un pezzo allora, e avevamo altro a cui pensare -  due bambini che non era facile tenere in macchina, seduti sul sedile posteriore incatenati ai seggiolini, neanche per un breve tragitto. Quella frase accompagnò l’evoluzione del nostro matrimonio, fino al giorno in cui, passando da quella strada, vedemmo che la scritta non c’era più – non solo la scritta, ma perfino il muro era scomparso. Ci restammo male. Fu come essere messi alla porta; fuori da quella storia che sapevamo, da qualche parte, stava continuando ad andare avanti, e di cui io e mio marito ci sentivamo di fare parte.

2#
Quando io e mio marito ci sposammo, oltre alle solite cose: camicie pantaloni maglioni scarpe giacche cravatte (due o tre) mutande calzini accappatoio spazzolino da denti e non ricordo cos’altro, mi portò in casa tutti i suoi libri (perché allora anche lui leggeva), molti dei quali erano il doppione dei miei. Questo mi riempì di gioia perché mi permise di “prestare” a chiunque si facesse vivo a casa mia dei libri- anche allora  aspiravo ad averne uno in cambio, ma spesso erano libri per i quali non ricevevo niente in cambio (si fa per dire) e  che non rivedevo più, libri che a volte cerco inutilmente nella mia libreria-. Io e mio marito avevamo un doppione perfino dell’Enciclopedia del Cinema che avevamo raccolto in fascicoli settimanali: la sua era rilegata, la mia no – decidemmo allora di regalare la mia. Non ricordo ora per quale ragione ma  allora non rivedemmo per anni quell’amica a cui la regalai. Una volta, mio marito mi intimò di smetterla di dare via i nostri libri; era molto irritato e mi raccontò che un amico che aveva ricevuto per sbaglio non il doppione del mio libro, che era di mio marito, ma il mio, gli aveva detto “spero che tua moglie non ti tratti come tratta i suoi libri! Altro che bookcrossing avrei fatto” - poiché più volte gli avevo chiesto in cambio un libro dei suoi da leggere -  e aggiunse: “ quel libro è la mappa di una battaglia navale!” - si riferiva al fatto che io con i miei libri ci parlo, faccio loro delle domande, scrivo delle note, disegno perfino . Mio marito, con lui, non si mostrò molto risentito, e gli disse  che effettivamente aveva ragione, che quello che io faccio ai miei libri lo faccio a lui, quotidianamente,  ma che preferiva essere trattato così piuttosto che essere lasciato bianco e vergine come tanti fanno con i propri libri .
E se questo non è amore, dimmi tu cos’è?


Rosa La Camera