L’operaio
dell’ANAS, per sua natura, è una creatura contemplativa e mansueta, guarda la
gramigna che cresce a bordo strada e ci parla, così cresce meglio, cresce
felice – si fannu belli riscurruti! - (non ci pervenne notizia se la gramigna,
alle sollecitazioni dell’operaio, poi risponde).
Se gli
operai dell’ANAS lavorassero a San Siro o allo stadio della Favorita, l’erba
sarebbe veramente alta, così alta che i giocatori non sarebbero visibili e
individuabili se non grazie ai movimenti dell’erba.
I giocatori
passerebbero i novanta minuti a cercare il pallone tra fusti di ortiche e di
trifogli e di erba affucacavaddi.
I portieri,
grazie al citofono di cui sarebbero dotate le porte, comunicherebbero tra di
loro chiedendosi: Cumpà, ma i tuoi compagni di squadra che fine fecero?
Boh,
ecchinnisacciu, cu tutta sta ervazza…
Gli
spettatori dalle gradinate godrebbero della visione di una natura incontaminata
che, sicuramente, non darebbe luogo ad alcuna violenza: nessun ha mai preso a
coltellate un altro tifoso per motivi di foglie lancelolate o secche o
pungenti.
Gli stadi
sarebbero luoghi pacifici dove osservare movimenti di fogliame in tranquillità.
Neanche gli
allenatori griderebbero.
Tutto questo
se la cura dei campi di calcio venisse affidata agli operai dell’Anas.
Tranne che,
ma questo succede una volta l’anno, viene annunciata una ispezione: gli operai diventano
Attila, stroncano, strappano erba, estirpano radici. Del campo rimane una
distesa lacrimosa di terra desolata.
Giorgio D'Amato